a Levanto, era un martedì, 18 aprile

Lo avevano portato in spiaggia, a godersi il sole, che lo ritemprava e gli piaceva tanto. Lì Pedro sembrava dimenticarsi la propria disabilità: si trascinava sul carrellino, ciondolando da una zampa all’altra, la magrezza scheletrica nascosta dal cappottino imbottito, lo sguardo attento. Seduti sugli scogli, il pianto in gola, lui in braccio, annusava l’aria, guardava il cielo, i gabbiani planare, sereno e curioso come sempre del mondo intorno.
Elena sperava in un miracolo, Riccardo era rassegnato all’inevitabile, stabilito per il giorno dopo.
Era proprio questa deliberata decisione, diventata indispensabile, a sconvolgere Elena. L’eutanasia era un atto d’amore, restituiva dignità, interrompeva le sofferenze, tutto vero, tutto giusto, ma: doveva uccidere il suo cane, e non lo sopportava.
La sera, l’ultima, lo aveva messo nella cuccia, quella rigida che lo aiutava a sostenersi, imbottita di cuscini, in cui ormai quasi spariva tanto era deperito. Avrebbe voluto dormire con lui sul divano per non interrompere il loro contatto fisico, Riccardo però aveva iniziato a protestare e, anche per non sentirlo brontolare, era andata a letto, così Pedro avrebbe pensato, forse, a una notte come tutte le altre. E lo era stata. L’aveva chiamata raspando con le zampe sui bordi della cuccia per farsi pulire e girare sull’altro fianco. Lo aveva baciato e coccolato più a lungo del solito. Si erano guardati, lui fiducioso, solo a tratti smarrito, la luce intelligente degli occhi velata dalla consapevolezza di avere bisogno di lei più di sempre, lei straziata. Doveva farlo morire e non voleva, non voleva. Pedro stava male, era vero, ma forse, come altre volte, poteva riprendersi, migliorare, anche solo un poco. Aveva resistito a tanto, da così tanto tempo, nello sforzo di stare con loro. Al mattino purtroppo la situazione era peggiorata, Pedro aveva rifiutato anche l’acqua e non era più in grado di trattenere nulla, anche l’ultima flebile speranza di un possibile rinvio era sparita. Come due automi, Riccardo che voleva interrompere la tortura per tutti il prima possibile, Elena stordita che eseguiva solo ordini, lo avevano messo in auto dentro la cuccia, al caldo sotto la sua copertina, senza cappotto e senza guinzaglio. Per lui, abituato agli spostamenti, sarà stato un segnale, o forse una conferma. Avrebbe potuto pensare di andare in riva al mare, ma la strada non era la stessa, ed era in grado di riconoscerla. Nell’unico ambulatorio veterinario della zona, avevano aspettato, nonostante l’appuntamento, un tempo infinito in mezzo ad altri in attesa di visita. Avevano accarezzato il loro Pedro senza interruzione, coprendolo con le mani per proteggerlo dalla curiosità, entrambi in ansia e infastiditi per la percezione di paura e di morte che Pedro poteva sentire negli odori degli altri. E poi, chini sul suo muso, Elena lo baciava e Riccardo gli teneva la zampa mentre lo accarezzava. Gli aveva detto stai bravo, perché aveva brontolato mentre l’ago per l’anestetico entrava a stento nelle vene. L’unico lamento da anni, da quando si era ammalato. Poi un cenno: è ora. In un soffio non c’era più. Pochi istanti ancora insieme, e glielo avevano portato via con la cuccia, tornata vuota. Risaliti in auto, si era accasciata su Riccardo urlando per il dolore insopportabile. Ma, in quel momento, all’improvviso, tra le lacrime, sano, allegro, sorridente come quando le correva incontro sollevando appena le labbra e mostrando i piccoli incisivi, Pedro era lì, era lì con lei, in braccio, l’annusava, la leccava, le saltava addosso, le diceva, sì le diceva, di non piangere, sarebbe stato con lei, con loro, per sempre. Riccardo lo sento, è qui, mi sta leccando, mi parla ancora, gli aveva detto. Lui piangeva in silenzio, devastato e incredulo.
dal mio libro Io ho sempre parlato. Vita di un cane unico con umani normali
nell'immagine, Pedro nuota verso di me nelle acque della Palombaggia, in Corsica, estate 2003. Aveva dieci mesi.
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