ginestra

Ginestra, di Clara Lazzari, è un esempio: chi sostiene che più di ogni strategia del marketing valgono l’autore e la sua personalità, dice il vero. Dice il vero anche chi sostiene che il racconto di sé ha senso se dà respiro al contempo al personale e all’universale.
L'autrice mi ha catturato subito, per come si è presentata in un post sulla pagina FB che modero, Scrittrici e scrittori emergenti.
La lettura del suo libro è stata la scoperta di affinità che mi son parse legami tali da non riuscire ora a scrivere la mia nota a margine in modo impersonale, né sintetico.
Nei manuali di storia si trovano esemplificate le linee temporali con un segno a collocare l’evento dirimente; nella linea di Clara c’è una cesura che lei pretende di chiamare con il suo nome: cancro, girarci intorno sarebbe inutile e avvilente; e ci sono un prima e un dopo, il racconto di Clara che non c’è più e il racconto di Clara che si è scoperta Ginestra.
La condivisione delle vicende narrate e del lessico utilizzato hanno scandito ogni mia riflessione e la matita, con cui di solito leggo, ha preso parecchi appunti. Nel prima di Clara ho riconosciuto tanto di me: atmosfera, profumi, giochi, momenti di vita e desideri della mia infanzia tra Milano e il mare, non lo stesso ma poco distante. Mi ha fatto sussultare il racconto di lei, adolescente timida scambiata per altezzosa, quando attraversa il corridoio del liceo classico per raggiungere l’aula della quarta ginnasio al piano meno 1: «ma questo è il mio Carducci!» ho esclamato [è lui!].
Ci sono due punti di distanza tra l'autrice e me, lettrice, adulte più o meno negli stessi anni: uno è la professione di insegnante: io avrei pagato per non esserlo, ma tutto quanto racconta è vivido nella memoria e si rianima nella lettura, soprattutto l’inesperienza e i concorsi da preparare, alcuni colleghi che restano amici, alcuni alunni con cui la comprensione è migliore. L’altro è la maternità, che non mi appartiene, ma che riconosco intera nel vezzeggiativo “mammotti”.
Poi, in un battibaleno, Dodger, il labrador dell'autrice, è diventato Pedro, il mio larian country sheppard (razza inventata per rispondere agli interlocutori con la puzza sotto il naso) con tutte le differenze di approccio, gestione e carattere, ma con la stessa purezza incontaminata di sentimenti vissuti, con la stessa dilaniante decisione da prendere, alla fine, mentre prima e dopo di Clara si intersecano.
Nel dopo, mi sono immedesimata in Roberto, il marito chiamato “l’ing.”, nonostante me ne manchino tutte le caratteristiche e mi sono chiesta quale ruolo ho avuto, come mi sono comportata, io, lì, in circostanze simili a ruoli invertiti mentre vivevo accanto a chi, come Clara ma senza la stessa cura per il proprio corpo, affrontava il cancro: chiamato con il suo nome, annunciato non da una litote («non è benigno») ma con un aggettivo quasi infantile («lei ha un bel tumore»), inaspettato, frutto del caso e di un’altra parola di due sillabe che inizia per “c” e che va e viene, si ferma di fianco a uno e non all’altro, come le pare. E poi le tappe delle cure, i medici alcuni con la loro scarsa empatia, altri invece partecipi, la deliberata rinuncia al contrassegno per il parcheggio H, la determinazione di vivere intanto che le cure agiscono e i capelli che «li taglio prima che mi cadano, cosa dici?», detto fatto, la consapevolezza acquisita che non si è più gli stessi.
Ci sono molti che leggono della malattia altrui con una curiosità più corrosiva del cancro di cui si racconta. Spero non accada mai alle bellissime pagine di Ginestra.