i Giganti sono stati a Levanto

La copertina è in bianco e nero. Il libro è double-face, con autore e titolo su fronte e su retro, che si distingue per il codice a barre. Ma Papes, l’autore, è Enrico Maria o Sergio? Me ne ricordo uno molto bene: «Conclude, Enrico Maria Papes». Sono due? E non lo sapevo?

Sono tradizionalista: apro il libro dal fronte e si svela subito l’arcano (in realtà è un Papes solo) che tale era per me e forse pochi altri.
Inizio la lettura, in cerca di conferma ai miei ricordi nella biografia del gruppo ma trovo subito segnali che mi spingono a capovolgere il libro e partire dal retro. Però, di solito, leggo prima introduzioni e prefazioni. Arrivo in fondo e mi è chiaro che le affinità mi attirano verso le pagine più personali. Tuttavia, provo a resistere, a seguire l’intento iniziale per cui ho acquistato il volume, ma non ci riesco, voglio conoscere Sergio, il Papes che non conoscevo: capovolgo e leggo la vicenda umana che si sovrappone precisa a una strofa imparata a memoria come tutte le altre delle loro canzoni: «Credo nell’amor / in ciò che sente il nostro cuor / so di non sbagliar /se dico che l’amicizia lo può dar / l’arte è nel cuor / e la famiglia è calor / poi una donna c’è / per completare questo nostro amor». Mi ritrasmette ancora il senso compiuto di solida tranquillità che la sua voce profonda mi aveva, allora inconsapevolmente, comunicato; quasi un perno per tutte le altre.
Riconosco le zone della sua infanzia, a Milano, tra la Stazione Centrale e piazza Greco, dove ho vissuto da adulta; sono passata innumerevoli volte lungo il viale delle Rimembranze su cui lui saliva e scendeva in bicicletta, rischiando il capitombolo. Ero piccola invece per frequentare i locali in cui negli anni ’60 cresceva la cultura musicale e teatrale che avrebbe nutrito la mia adolescenza, perciò, tranne alcuni di cui non sapevo nulla, ritrovo tutto: luoghi nomi concetti criteri contesti. Milano è anche la mia città: ci sono nata, ci ho studiato e lavorato, l’ho vissuta nei momenti peggiori eppure coinvolgenti. Comprendo – in senso etimologico – quello che Papes descrive e poi il senso di estraneità, a un certo punto della vita privata e della vicenda pubblica.
La sintonia risuona immediata alla foto «Con Scimmia, 1972»: è evidente tra lui, accucciato alla sua altezza, e un botolo di cucciola aggrappata con le zampe al suo braccio, il bene reciproco stampato sulle facce. Comprendo anche il desiderio di anonimato, un vivere defilato, mettendosi alla prova e imparando a fare altro in sintonia con la natura e senza orpelli. Leggo del suo ammirevole impegno con i bambini, dei suoi viaggi interessanti; lo scopro vegetariano ben prima di tanti, di sicuro di me. Poi eccoli: i cani e le assonanze. Il cucciolo cui si deve rinunciare da piccoli («Ci manca solo il cane»), poi la mascotte, e quello che ti aspetta per andarsene, fino a colui che con la sua saggezza sa rendersi ragione di vita e ti «salva». Solo la dolcezza di un’altra anima animale può consolare.
Comprendo di nuovo. Mi fermo a pensare a miei cani, e al mio gatto.
Proseguo e rigiro il volume, tornando al gruppo, alla musica, ai dischi.
Cosa trovo? Un’altra “immagine” che suona note familiari e mi cattura: due ragazzi che si incontrano alla fermata dell’autobus, in viale Romagna; in Città Studi sono nata e vissuta fino all’adolescenza. È lì che Enrico Maria e Giacomo si incontrano. Lì nascono i Giganti. Lo so, sembra inesistente, ma io vedo il senso, il motivo, la ragione per cui erano il mio gruppo preferito. Non era solo gusto musicale. E non era neppure così insensato, per il mio carattere, che tra i quattro fosse proprio Mino a piacermi di più: fascino dell’artista ombroso e tormentato; voce soffiata, screziata di disillusione in Tema e Proposta, il graffio della delusione e dello sconforto in Io e il Presidente, occhiali scuri ad accrescere il mistero. Ricordo che le mie coetanee impazzivano per Sergio, con lo sguardo accattivante sotto il ciuffo; trovavo la sua voce caldissima e mi piaceva il contrasto in Una ragazza in due con quella di Checco, che recitava la parte dello sciupafemmine simpatico, divertente. Che voci, ragazzi!
Ero troppo piccola per partecipare al raduno del Beat al Palalido a Milano, ma in quell’estate 1966 in cui spopolava Tema iniziavano le estati nel mio bellissimo angolo di mondo, dove è capitato che li abbia incontrati: si aggiravano in costume da bagno ai bordi della piscina annessa allo stabilimento. Mi mancava l’intraprendenza per avvicinarli e li ho osservati da rispettosa distanza. Giocavano (o tentavano di gestire, da quanto si legge) con una scimmietta che portavano con loro anche sul palco; ne deduco – dato che non ricordo di preciso – che fosse l’anno di Io voglio essere una scimmia. [Dirò altrove di un aneddoto divertente e comprovante la loro presenza in loco, presenza discussa e da alcuni negata, ma testimonata in modo incontrovertibile].
Nelle pagine curate da Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini, percorro le tappe di un successo breve ma denso; alla vicenda del “mio” gruppo, aggiungo notizie e informazioni sul mondo musicale che mi ha circondato, facendosi sentire dalla radio, dai dischi, dai juke-box, dai periodici per giovani allora in voga. Ne esce un mosaico di tessere infinite. Mentre scrivo ho nelle cuffie le loro voci armoniose, salvate nel web anche dei dischi che non possiedo; presto ai testi un’attenzione ovviamente diversa («Abominevole ma libero!») e li trovo ancora belli, originali, attuali e soprattutto riconoscibili. Leggo della vicenda di Terra in bocca che non conoscevo in modo così dettagliato, ne recupero pezzi dal vivo anch’essi salvati dalla rete, leggo del premio Borsellino ricevuto nel 2011. Sembra assurdo che raccontare una storia di mafia accaduta nel 1936 potesse subire censura. Nel 1971, come oggi. O no?