il giorno del naso

Il 25 marzo accadde a Pietroburgo un fatto di eccezionale stranezza.
Me lo ricorda teresa.t sulla pagina TW dicono di oggi: è l'incipit de Il naso di Gogol'.
Ne approfitto dunque per ripresentare questa nota a margine.

«I racconti di Pietroburgo» e «L’ispettore generale» (radunati dalla Fratelli Fabbri Editori in una bella vecchia edizione di cui ridirò) sono un paradigma, un capolavoro di arte della satira, di iconica rappresentazione del peggio umano prevaricatore, di critica sociale universale e immortale, che gli esperti di letteratura russa sono in grado di analizzare molto meglio di una semplice lettrice come me.
Ricordo le impressioni divertite della mia prima lettura, cui si sono sostituite, in questa più recente, notazioni diverse, volte a cogliere anche spunti di riflessione sulla visione della Russia di Gogol', mutata, così almeno sostiene qualche studio critico, dopo i suoi soggiorni romani. E Roma, nella comune accezione italiana il simbolo della burocrazia opprimente e della corruzione, è stata invece per Gogol’ il luogo in cui vivevano persone vitali, allegre, non corrotte dall’organizzazione sociale e politica, il contrario dei popoli vessati dalla politica, dal denaro, dalle gerarchie burocratiche.
Sulla prospettiva Nevskij circolano vanitosi che, mutati indumenti e vetrine, non sono tanto diversi da alcuni nostri contemporanei, così come cupidigia e bramosia di agiatezza rappresentate ne «Il ritratto» caratterizzano parti del nostro sociale.
Stranianti e divertentissime le «Memorie di un pazzo» per le quali mi piace riportare quanto dice, anche se non direttamente in merito, Paolo Nori sul suo sito: «Ho appena scritto (in una cosa che sto scrivendo) che Gogol’, non che fosse matto, ma non aveva mica tutti i suoi a casa, come dicono a Parma. Spero si capisca».
In un libro recente sulle fontane romane si racconta che quella detta del Facchino senza naso è stata l’ispiratrice del racconto «Il naso», episodio inverosimile che però – per dirla con l’autore – «accad[e] al mondo; raramente ma accad[e]». E non sarà realistico, ma forse lo è per la cultura russa, il fantasma che ruba i cappotti ai passanti, tuttavia il lettore, in totalizzante empatia con Akakij Akakievič, non può che amarlo.
È ancora Paolo Nori a innescare una suggestione, a mio parere bellissima. Nella lettera di un condannato a morte della resistenza c’è un poscritto in cui Giuseppe Bianchetti, mezz'ora prima di essere fucilato, chiede al fratello di andare a prendere a Novara il suo paletot; l’autorità dell’ultimo desiderio - sostiene Nori - rende memorabile, come quello di Akakij Akakievič, anche il cappotto di un operaio trentaquattrenne di Montescheno. Paletot: termine famigliare, per me, al posto di cappotto.