intervista a Karla Offembach, l'emergente che non si mostra

È Karla Offembach la signora ritratta? No, è come l’ho immaginata e raccontata all’intelligenza artificiale. Quando Karla ha visto il risultato per l’approvazione, si è messa a ridere ma non ha posto vincoli. Ne ho dedotto che non la rappresenti affatto.

Signora Offembach, benvenuta. Sono lieta di poterla intervistare per il mio blog «note a margine». E la ringrazio per avermi contattato.

Grazie a lei e bentrovata. 
Mi hanno intenerito la tenacia e la caparbietà che ha speso nel provare a rintracciarmi.

Avevo perso le speranze dopo averle scritto inutilmente all’indirizzo di posta elettronica indicato nel libro e inserito nella piattaforma Writer Officina; neppure la ricerca in rete dava risultati.

Ho pubblicato quell’indirizzo per leggere i riscontri di eventuali lettori, poi ho scoperto che, usandola pochissimo, la casella di posta si è cancellata da sola. Colpa mia e ho già rimediato con il nuovo indirizzo presente su quella piattaforma, ma credo che il libro sia stato letto da pochissimi. D’altronde, sono consapevole dei miei limiti prima di tutto nel propormi e anche come scrittrice.

A me il suo libro è piaciuto. E posso dirle che la breve anticipazione di questa intervista ha catturato almeno un paio di lettori.

Che bello! Grazie ai due nuovi lettori.

Io insisterei. Proviamo a pubblicizzarlo ora?

Proviamo…

Per iniziare, mi racconti di lei, il più possibile.

Parlo di me mal volentieri; però per le sue note a margine lo faccio. Mi è piaciuto questo titolo: ha un sapore di libro, di carta, di matita operosa e di antiche abitudini perdute.

La ringrazio. Era proprio quanto volevo comunicare.

Non mi ringrazi: è la verità. 
Tornando a me, il mio cognome evoca sempre Jacques Offenbach, il noto compositore del Can Can, il famoso Galop con le ballerine del Moulin Rouge che agitano le gonne, mostrano gambe e culottes e si producono in capriole e spaccate mirabolanti. È capitato anche a lei, nella nota che ha scritto sul mio libro. Me ne sono compiaciuta perché al contrario di molti, non si è fatta ingannare dalla gamba della consonante. Ricordo di aver pensato: «che bello, c’è ancora qualcuno che sa leggere». In questo oceano di ignoranza in senso etimologico…
Sono una persona che tempo addietro sarebbe stata definita “originale”, fuori dagli schemi. Sono scorbutica, potessi vivere lontano dal resto del mondo lo farei. Cerco spesso l’isolamento per togliermi di dosso quella patina appiccicosa di finzione necessaria a sopravvivere in quasi tutti gli ambienti. Non mi sono mai abituata a spalmarmela addosso e quando mi si incolla quella altrui la devo lavare via il più presto possibile.

La comprendo, ma non crede sia controproducente, specie oggi e specie per chi – come lei e come me – ha deciso di auto-prodursi? Non pensa che le possano appiccicare addosso l’etichetta di presuntuosa?

Partiamo dal fondo. Non credo proprio di essere presuntuosa, anzi, semmai ho il difetto contrario. O mi si crede e mi si accetta così, o pazienza, non per presunzione, bensì per determinata rinuncia a piacere a tutti i costi. Per il resto, per la scelta di auto-produrmi come per la scelta di non mostrarmi, tutto dipende dal tempo: non ne ho da spendere in attese molto probabilmente inutili e non mi va di farmi vedere come sono oggi: anziana, gli antichi tratti ancora riconoscibili ma segnati, e parecchio. No, meglio di no.
Per questo, sulla retro-copertina del mio libro non ho pubblicato la foto dell’autore. Nei libri altrui ho notato che il più delle volte non fotografa la realtà. Lei stessa ha usato immagini datate rispetto a com’è ora, non è vero?

Vero. Ho ceduto alla vanità. È questo, dunque, il motivo per il quale non ho trovato un suo profilo social? Non si parla di lei da nessuna parte.

Sì, è per questo. E anche perché penso, come le ho già detto, che si debba essere considerati per ciò che si fa, per ciò che si pensa, prima che per l’aspetto fisico.

Sono d’accordo, ma oggi rinunciare all’immagine e ai social è una scelta forte. Forse un’alternativa ci sarebbe: mostrarsi con sincerità e parsimonia può diventare un modo per essere considerati per ciò che si fa e si pensa.

Potrebbe, ma ci vuole tempo e io non sono paziente. E poi è rischioso: ci si espone, si perde la propria esistenza, con il rischio di diventare un bersaglio. Sa bene, immagino, quanta invidia si rischia di suscitare. Non la temo, ma preferisco evitarla, restare al riparo.

A un certo punto ho anche pensato che non esistesse davvero.

In che senso?

Mi sembrava di cercare un fantasma.

Oh, per carità! Che la Margniffa mi colga il più tardi possibile. Esisto, esisto: in carne e ossa. Mi ha parlato, no? Solo questo posso concedere al diktat di non mostrarmi che mi sono imposta. E mi creda, ho fatto davvero un’eccezione con lei, ma è stata così garbata.

Come mai e in quale occasione ha deciso di dedicarsi alla scrittura?

Ho sempre letto tanto e di tutto con avidità, dai classici a quanto di contemporaneo mi capitava sotto il naso, in realtà senza un criterio preciso: poteva essere l’attualità come l’amore, la politica come un romanzo di cappa e spada. E i quotidiani. Un tempo c’era la terza pagina a proporre contenuti di qualità. C’erano firme… fior di scrittori, che fossero romanzieri prestati al giornale o viceversa. Si leggeva e si imparava. A casa mia il quotidiano cartaceo è sempre entrato, ogni mattina, ed è sempre stato letto da tutta la famiglia e poi commentato negli articoli più interessanti. Mi sarebbe piaciuto diventare una giornalista d’inchiesta, o scrivere elzeviri per la terza pagina di un quotidiano, di quelli che si potevano chiamare tali forse fino a trent’anni fa.
Invece, nella vita ho esercitato una professione molto lontana da questo ambiente. Le dico solo che ho trattato numeri e pubblico: si è così acuita la mia originalità, il mio bisogno di tranquillità. Appena conquistata la pensione, mi sono organizzata per vivere a modo mio e ho pensato a scrivere.

Come è nato «S.R.L. Furfanti allo sbaraglio», il suo libro?

È una storia grottesca nata da un fatto di vita vissuta, uno di quelli che non arrivano neppure ai giornaletti di provincia perché non fanno notizia. E non fanno notizia perché si è sempre più assuefatti ai furfanti: delinquenti, truffatori da quattro soldi, nei quali chiunque può imbattersi ogni giorno, in ogni ambiente. E non hanno patria.
Ci si scandalizza – sempre meno, per la verità, dai tempi di Mani pulite – per la corruzione nelle alte sfere. Episodi di cronaca vecchi, nuovi e recentissimi ne raccontano delle belle, che – a ben guardare – sono tutt’altro che imprese mirabolanti. Tutto è sempre molto terra-terra; tutto parte sempre dal basso e dal piccolo: la disonestà è ovunque nei comportamenti più banali e quotidiani, coperta da giustificazioni del genere «ma sì, tanto, cosa vuoi che sia» e «c’è ben altro!»: quante volte lo abbiamo sentito dire? Ma soprattutto e purtroppo, quante volte lo abbiamo detto? Quanti di noi possono dire di non essersi mai comportati da manutengoli? Disonestà e visione limitata del proprio particolare, a un millimetro dal proprio naso o – come si dice – a un palmo dal culo mio, vada dove vuole. Dal micro a macro è un attimo: la velocità di espansione e annidamento è supersonica e il terreno in cui attecchisce è fertile, purtroppo.
Conosce Gadda, immagino. Avrà letto la Cognizione del dolore. Siamo ancora la truffaldina società del Maradagàl nella quale interessi e personali condoni o sanatorie abbondavano. E chi –  mosca bianca – prova a opporsi in nome del giusto, del proprio diritto, del rigore morale, fa la fine di Gonzalo Pirobutirro d’Eltino: muore povero, mutilato e odiato da tutti.

Mi pare evidente, ma glielo domando lo stesso: cosa ha voluto dire con la sua storia? Si tratta di una denuncia?

Sì, in gran parte. Ho voluto raccontare di un tessuto sociale quotidiano, alla portata di tutti noi, nelle nostre case (e il termine non è scelto a caso) intriso di disonestà spicciola, squallida, ridicola a ben guardare, patetica non fosse per le ricadute sugli inermi, e per certi aspetti persino sprovveduta. Fanno i furbi e vanno allo sbaraglio; ingannano, ingarbugliano, frodano, si arricchiscono sulle spalle altrui con una sfrontataggine incredibile, senza neppure conoscere il senso della vergogna, ma cadono sempre in piedi, il più delle volte la fanno franca perché trovano sempre connivenze. Restano impuniti e ignorati quel che basta per continuare a delinquere solo cambiando nome. Questo ancora mi sconcerta.

Ci vorrebbe un seguito, allora, al suo libro. Può dirmi se ci ha pensato oppure se lo sta già scrivendo?

Non sto scrivendo nulla per ora, anche se le fonti di ispirazione non mancano: Malaffare è il luogo immaginario dal quale parte la vicenda di S.R.L., ma Malaffare è ovunque, Malaffare emigra e attecchisce in luoghi impensati: chi avrebbe potuto supporre quanto si svolge a Onorabile? [n.d.r. Onorabile è il nome di fantasia dell’altro luogo in cui operano i furfanti allo sbaraglio]. In questo periodo di nuovi arresti, condoni e sanatorie, sto raccogliendo materiale utile. È possibile che decida di scriverne un seguito. Sì, è possibile.

Aspetto di leggerlo, allora.
Ringrazio molto Karla Offenbach per questa chiacchierata.

Ringrazio io lei per avermi ascoltata.

Ricordo che S.R.L. Furfanti allo sbaraglio si può acquistare a questo link:
https://www.amazon.it/dp/B0BBJZQDJ1
Il libro è disponibile sia in cartaceo sia in formato e-book e scaricabile per chi possieda Kindle Unlimited.