lettera all'autore

Gentile Professore,
raccolgo l’invito che, con i conclusivi “Chiarimenti indispensabili” al suo romanzo Gli anni facili, lei sollecita nei lettori invitandoli a scriverle e scelgo di dare alla mia nota a margine la forma della lettera.
È uno dei modi secondo me più belli per comunicare, purtroppo desueto, ma abituale nell’anno accademico 1961-62 e seguenti, gli anni in cui Giacomo, protagonista e prima voce narrante della vicenda, frequenta Lettere classiche alla Statale di Milano.
In quel periodo, io frequentavo ancora l’asilo e abitavo in Città Studi. Dunque, età e zone molto diverse da quelle in cui abitavano e circolavano Giacomo e suoi amici Lula, Maddi, Pia, “don Calò”, Gabri, Anna, Max… ecco, come lui ho frequentato il Carducci e, in effetti, posso testimoniare un po’ dello snobismo che lei cita – del tutto immeritato – da parte di alcuni coetanei all’epoca iscritti al Manzoni o al Parini.
Quante lettere ci siamo scritte, tra compagne di classe e amiche fino ai tempi della laurea e con qualcuno anche oltre, ma pochi. Peccato, era così bello confidarsi con tutto il tempo del mondo che sembrava di avere; con paziente amicizia, simile a quella di don Calò, il primo Cupido tra Giacomo e l’inafferrabile aristocratica Pia, in apparenza altera, in realtà coraggiosa, generosa, presente nel momento del bisogno; con tutta la complessità che Lula confida a Giacomo per nascondere e al tempo stesso rivelare il proprio dramma; con la spregiudicatezza di Gabri, che rompe i cliché e con una “franchezza brutale” mette in atto comportamenti rivoluzionari (dalla chirurgia plastica al sesso), salvo rivelare ipocrite incongruenze borghesi; con l’incertezza di Giacomo che scrive e strappa ciò che scrive, poi scrive un racconto con cui decide di comunicare. Un gruppo a suo modo affiatato che tuttavia non resta unito a lungo: gli amori tanto mutevoli a quell'età, il detto, il non detto, le aspirazioni, le necessità agiscono come forze centrifughe, rendono fragili i cuori, incrinano le amicizie fino all'evento dirompente, che ne inanella altri come in un domino.
Si riempivano le lettere di dubbi e ipotesi, impressioni dedotte da uno sguardo di chi in quel momento affollava i pensieri, alterava lo stato emotivo come un gran febbrone e rendeva difficile concentrarsi sui libri, in attesa di sentir squillare il telefono, nero e appeso al muro in anticamera, con il tuffo al cuore al suono della voce che dall’altra parte del filo rispondeva al “pronto”.
È vero, Professore, quel che dice: ci si sgomenta di fronte alle presunte decisioni da prendere e un poco si perde di vista il vero, a vent'anni ma anche più avanti, se si resta sempre un po' adolescenti.
Seguendo i suoi personaggi-studenti, sono scesa dalla S alla fermata di via Larga, pur provenendo dalla direzione opposta a quella di Giacomo, sono tornata nel baretto di fronte all’ingresso della Statale, nei cortili del Filarete, in biblioteca e alla Sormani e alla Braidense, nelle aule gigantesche ad anfiteatro, negli istituti: luoghi che incutevano un timore reverenziale a me, matricola “imbranata”, nel senso in cui lo è Giacomo con le ragazze e nel senso di persona poco intraprendente negli studi, almeno allora, della razza “di chi rimane a terra”. Ho rivisto docenti, rivissuto il momento degli esami – prima, durante, dopo – i fondamentali, il piano di studi da presentare, la tesi da chiedere, il rapporto con il Maestro (non quello del romanzo, docente di letteratura italiana, ma il mio).
Le mie vacanze in montagna hanno sempre preso la via dell’Alto Adige; quindi, non sono mai stata al Lac d’Arpisson, né al lago Liconi, luoghi di vicende rilevanti nella trama del romanzo, dalla seconda parte in poi; la lettura mi ci ha immerso e anche sconvolto, se penso al racconto di quanto accade a Lula.
Pur avendo passato solo di rado un Ferragosto a Milano, ho riconosciuto l’incanto speciale delle vie del centro vuote, deserte di umani e dei loro mezzi meccanici. E anch’io come Giacomo ho sfogliato le guide del telefono alla ricerca di compagni di classe, di persone appena sfiorate ma rimaste impresse nel ricordo.
Mi rendo conto che non è netto il confine tra questa nota a margine e la nota autobiografica, di scarso interesse per il lettore; tuttavia, la lettura del suo romanzo mi ha immerso in una totale commistione tra letto e vissuto in anni quasi coetanei: Macchia Nera che esce dalle pagine di Topolino, la filastrocca del pin pin cavalin, i luoghi di Milano che ho abitato, i negozi che ho frequentato, le canzoni che ho cantato, una delle commedie più emozionanti che ho visto in tv (Ricorda con rabbia di John Osborne con Ilaria Occhini e Corrado Pani, del quale ero “cotta”), gli abiti che ho indossato (la minigonna, la oxford azzurra perché la indossava il mio primo amore serio che amava il jazz, le gonne "midi" con gli stivali e tacchi che ora sarebbero trampoli). E ancora letture condivise, le espressioni milanesi ripetute, l’uso dei vinili per sentire la musica, della radio per ascoltare le notizie. Di alcuni eventi storici di cui Giacomo discute con Max ho solo il ricordo della tanta preoccupazione respirata in casa, di altri invece ho iniziato a essere testimone e, leggendone, mi sono ancor più convinta di quanto si fatichi a volte a mettersi a fuoco nel proprio contesto storico.
Un mondo, un’età, un ambiente coinvolgenti. Tanta bellezza raccontata, tanta nostalgia.
Gentile Professore, mi auguro non le spiaccia se evito di sottoporle un elenco di scoperte di cripto citazioni che dice sarebbe lieto di ricevere dai lettori; il mio sarebbe senza dubbio incompleto e soprattutto non vorrei incrinare l’atmosfera magica che le sue pagine hanno creato e per le quali la ringrazio.