lo scrittore nella corte dei Camon

Quando il padre si ammala, pare realizzarsi un accadimento impensato, che si sperava impossibile. Allora il padre si mostra in tutta la sua fragile debolezza, chiede con una energia che pare un comando ma non lo è: è “solo” la richiesta che un voto, un desiderio antico e tramandato, sia esaudito, anche per interposta persona, quella più prossima: il figlio.
Quel figlio ha la concreta possibilità di essere ricevuto in alte sfere, grazie alla propria professione di scrittore: professione che gli imporrebbe, tra l’altro e se non altro, di «fare giustizia» con il suo raccontare; professione ritenuta vergognosa, impossibile da accettare per un padre legato al lavoro nei campi, alla terra, quasi infisso nella terra come albero secolare, in una campagna che «in tempo di guerra era come l’America dopo Cristoforo Colombo».
Il senso della stirpe, ascendenza e discendenza, radici e rami, si trova nella lingua, nel dialetto, nelle caratteristiche ereditarie del corpo, veicoli di più strette appartenenze; nei ricordi che si affacciano al bordo di un letto di ospedale defraudato dei simboli tradizionali del conforto religioso; nello svelamento di sé che i figli fanno dei padri svelando sé stessi.
La mia stirpe di Ferdinando Camon è una storia personale; sullo sfondo, intessuta alle vite dei padri e delle madri c’è la Storia dell’Italia, da una guerra all’altra e dopo; nomi e date sono di fantasia, «ma non il resto. È il resto che conta» (p.151).