marzo, per me

[detestavi il "10" e ne avevi ben donde]

L’8 marzo di trentadue anni fa a Milano le donne potevano circolare gratis sui mezzi pubblici, anche entrare nei musei: capirai! Avevo proprio da gironzolare per la città infiorata… 
Ho guidato l’auto fino alla clinica veterinaria di via M. Gioia dove il parcheggio era sempre impossibile. Non mi ricordo se l’ho trovato o no, non so dove mi sono infilata. Dog era ridotto uno straccio ed è bastato poco ai medici per dirmi che si poteva solo tentare la somministrazione di dosi da cavallo di un farmaco che però al momento non avevano.
«Vado io, alla farmacia della Centrale».
Dieci minuti a piedi, in condizioni normali. Mi è sembrato di scalare l’Everest. Gambe di cemento, respiro azzerato, sangue gelato e quell’aria di festa gialla in giro, finta e insopportabile. 
Per fortuna il farmaco c’era. La reazione doveva essere immediata, altrimenti sarebbe stato inutile anche quello.
Sono tornata a casa a riferire e a ingollare a forza un boccone, poi di nuovo in clinica, dove avevo dovuto lasciare Dog.
Piangevo come una fontana.
All’incrocio con via Tonale mi sono accorta che il ghisa, ancora in divisa invernale, messo lì a gestire il traffico a supporto del semaforo, mi guardava con insistenza e stava per avvicinarsi. È scattato il verde, ho inserito la prima. Chissà cos’ha pensato.
Qualche ora più tardi, tragitto inverso, fischia e mi ferma perché ero passata al limite tra giallo e rosso nonostante lui:
«Ha ragione, mi scusi. Sono passata di qui qualche ora fa. Mi ha visto anche lei: piangevo».
Ci ha pensato un momento, io avevo già la mano su patente e libretto:
«Vada, per questa volta. Ma stia attenta». Delizioso.
La situazione precipitò nel giro di ventiquattro ore. Il farmaco non servì, la creatinina non si abbassò. Dovevo decidere. Decisi. Era il 10 marzo 1992. Un dolore lancinante, ogni volta che ci penso.

Due anni dopo, 10 marzo 1994, sento una voce nell’orecchio, bisbiglia qualcosa di orribile; mi do della matta da sola: non mi ha parlato nessuno, sono su un mezzo pubblico, sto andando in Sormani dove mi aspetta una lista di libri da consultare. È ormai buio quando, avvertita al telefono dalla voce della vicina di casa, mi catapulto dalla palestra a casa perché la voce che avevo sentito al mattino aveva ragione: papà sta male. D’altronde, me l’aveva detto.
Se li calcolo, sulle dita, per vederli e rendermi conto meglio, sono passati trent’anni.
Se visualizzo il ricordo, è adesso.
Il sangue si gela, nulla ha più senso, non prego, spero: si potrà porre rimedio, interverranno, cureranno, guariranno; la medicina ha fatto passi da gigante, che frase idiota. C’è poco da intervenire, curare, guarire.
Il medico del pronto soccorso è spietato: descrive la situazione. Mi pare quasi mi accusi di negligenza: come avete potuto non accorgervi che… noi? magari i dottori che lo avevano in cura, ai periodici controlli. Smette di parlare e agisce.
Passiamo una notte al telefono: lui cerca un posto letto in un ospedale con una sala adatta che lì non c’è; io tengo al corrente mia mamma, sola a casa.
Sembra che papà sia stabile, sto lì con lui; un infermiere delizioso, che non scorderò mai, mi porta un caffè caldo, il più buono che abbia mai bevuto; che paradosso.
Fino in Veneto, telefona il medico del pronto soccorso, allarga il più possibile le inutili ricerche: nessuno ricovera un uomo di 83 anni con quella patologia. E alla fine decide: informa il magistrato.
Magia! A N. c’è un letto che poco prima non c’era.
È mattina. Presto. Non mi ricordo le fisionomie, ma le voci degli addetti al breve trasferimento sono marchiate nei timpani; le sento ancora: ho cercato di coprirle, parlando a mia volta più forte con papà, mentre si raccontavano nel dettaglio la gravità della situazione di “questo”.
«Ma “questo”, sono io?»
«Ma no, papà; è una cosa che stanno leggendo. Tu non c’entri».
In reparto, mi guardano tutti malissimo: come mi sono permessa di far intervenire un magistrato? Non importa se a chiamarlo non sono stata io, ma un loro collega.
«Mi dica lei cosa devo fare – mi chiede il primario – se lo metto su un tavolo operatorio, muore. Se lo tengo qui ricoverato, muore lo stesso».
Per fortuna papà non poteva sentire questa perla di sensibilità che ha fatto il paio con l’indolenza esasperante dell’addetto di turno la sera seguente, 12 marzo, quando il monitor suonava dichiarando l’emergenza e questo arrivava lento pede, giusto in tempo a dichiarare il decesso.
E richiedere l’autopsia, per forza, è obbligatorio: «Ha chiamato il magistrato».