melodia improvvisata

Prima di scrivere le note – nel senso non musicale del termine – ispirate da Temporale Jazz di Marco Restucci, devo confessare con l’onestà che l’autore richiama nell’«intro», la mia ignoranza in tema di musica, a parte nozioni elementari e gusto personale di ascoltatore. Però, il bello di questo libro sta anche nel fatto che si legge, si ascolta, si assorbe a prescindere dalle competenze personali perché coinvolge, racconta, sollecita, spiega, suggerisce, trasporta e lascia affiorare il mondo dei ricordi, quel «personale altrove indotto dalla musica», unico ma al tempo stesso comune a tutti. Almeno questo è capitato a me. E ho “visto” vicende che dovrò scrivere, imparando a trovare il tempo, senza lasciarlo passare o ingannarlo.
Senti il tempo… c’è alle mie spalle, sopra un ripiano della libreria, il vecchio metronomo di mio nonno; e l’ho ascoltato mentre seguivo il flusso della disquisizione sul tempo come condizione della musica, la riflessione sulla manualità da cui passa il legame con lo strumento, sull’uso della voce per far risuonare, anche nell’anima, le note di chi suona e di chi ascolta, fino alla fusione con il respiro di legni corde ottoni tasti. 
Ascolta la melodia… l’ascoltatore vive nel «tempo dell’ingenua arrendevolezza», può lasciarsi pervadere dalla musica fino alla danza, sua «simmetrica sorella». 
Improvvisa… era la parte degli stage di danza che ho amato di più: «musicaparoladanza», fusione in cui la parola torna fonema, è suono e movimento, ma anche senso e significato, muto in apparenza perché privo del castello logico, diversamente espresso.
Sono molteplici, e tutte suggestive, le similitudini, associazioni di idee, immagini usate dall’autore per rendere con le parole comprensibile, chiara e avvincente la sua trattazione musical-letterario-filosofica che risulta consona: con-suona e rende il jazz un’avventura nella quale scoprire la magia dell’unisono o la sensazione della perfezione o il lavorio dell’immaginazione colta nel suo processo creativo, nel suo «frenetico operare», diverso dal suo «operato riveduto, rifinito e corretto mille volte».
Nel jazz c’è il rischio, c’è lo spazio per l’errore, esempio concreto dell’imprevisto, pericoloso amante corteggiato. C’è l’immanenza.
E poi c’è il critico, un convitato di pietra della con-fusione; c'è il pubblico, «minaccia esogena per ogni artista» che è tale e grande se in grado di elaborare un pensiero tanto rapido da anticipare gli eventi; c’è la vita del musicista, la sua esistenza, le amicizie, le relazioni, il quotidiano, argini al tracimare della musica.
Il jazz dunque cos’è? Improvvisazione («come camminare sulla neve») che toglie l’intervallo e rende l’uomo «percettivamente panarmonico», suoni che cadono sempre in punti inesatti; una musica spietata che mina le certezze. È la precarietà, l’istante che passa tra il tic e il tac, è (definizione bellissima) «l’eterno gerundio del tempo».