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« Là, in quella sabbia e in quella malinconia, ognuno si spogliò dei suoi panni e della sua crosta e rimase nudo. E si mostrò quello che veramente era »
Diario clandestino 1943 - 1945 di Giovanni Guareschi è un concentrato di Storia e letteratura che desidero ricordare nell’anniversario della Resistenza, perché anche quella degli IMI (Internati Militari Italiani) lo fu: l’altra Resistenza, per dirla con Alessandro Natta.
«Eravamo insieme» diceva mio padre di Guareschi, e di altri, tra cui Giuseppe Lazzati e Gianrico Tedeschi.
Stessi campi, Deblin Sandbostel Wietzendorf, fino alla liberazione arrivata con gli inglesi, il 16 aprile a Fallingbostel.
Stesso destino da «comuni mortali di complemento».
Stessa scelta: il rifiuto di aderire alla RSI e di lavorare per i tedeschi.
Tranne pochissime eccezioni, tutti dicono e ribadiscono ad ogni richiesta: no, compreso il «tentenniere», che in un angosciante alternarsi di sì e no stenta a ricordare la sua ultima presa di posizione.
Gli IMI provano a non morire: disegnano schizzi e piante, riordinano la casa, ipotizzano caminetti in soggiorno: «questa è nostalgia, è bisogno di attorcere più saldamente a un appiglio l’altro capo del filo che ti lega alla vita»; oppure si buttano nella mischia di conferenze e discussioni, «necessità di iniettare nell’aria limacciosa del Lager l’ossigeno che permetteva il sopravvivere dello spirito» perché – diceva come è noto Guareschi con la testardaggine della bassa emiliana – «non muoio neanche se mi ammazzano». Perciò scrisse opere appositamente per il lager, approvate dall’assemblea dei suoi compagni, come le lettere al postero, indirizzate a suo figlio e lette di baracca in baracca, come articoli del giornale parlato La campana.
Ma non è il solo: «Il tenente Gianrico Tedeschi tiene una lettura di poeti moderni: Quasimodo, Montale, Ungaretti, Saba, Scipione, Cardarelli, Dora Martius, Rebora. Quest’ultimo presente al raduno totalmente: cioè anima e corpo […] parlano con voce cordiale: versi si appiccicano [all’] animo come carta bagnata su un cristallo, e le parole sono trasparenti, umane, e ripetono l’eterno miracolo della poesia perché sono straordinariamente attuali».
Alla regia università di Sandbostel, i prigionieri si radunano in gruppetti di facoltà dietro le baracche e in alcuni momenti l’iniziativa delle conferenze diventa frenesia oratoria, tutti vogliono parlare «probabilmente per rifarsi di aver supinamente taciuto o pavidamente bisbigliato per venti anni filati». Tuttavia, sono importanti questi corsi tenuti in prigionia, perché serviranno a non rimanere prigionieri di nuovo, del primo che li aspetterà alla stazione o del secondo o del terzo.
Alleneranno le coscienze a vagliare ogni parola loro, a individuare le falsità di ognuno, a scoprire la verità. Altri invece parlano solo di cibo e pensano solo al cibo, preda della fame e della pazzia, mentre «l’achiquestiere» distribuisce equamente i pochi viveri giunti integri con i pacchi da casa e ogni minutissima cosa che assume senso per chi non ha più nulla. Altri ancora sono preda della noia e dell’inerzia in giornate invece cruciali per il mondo intero, di cui sanno grazie a Radio Caterina, costruita smontata e ricostruita al bisogno con pezzi di fortuna.
Per questi uomini senza diritti, «sognare è la necessità più urgente […] per non dimenticare di essere vivi». E il primo Natale nel 1943 il pensiero supera i reticolati insieme con il modulo lettera che raggiunge i propri cari, sperando di trovarli sani e felici, seduti alla tavola apparecchiata con la tovaglia bianca, affollata come una piazza ad accogliere radunate le mani della famiglia, per sentirsi meno disperati, mentre gli affetti e i ricordi entrano ed escono, sotto il naso di Gott, il dio tedesco misterioso e grottesco che li guarda dalla torretta, ma non li può vedere né tanto meno fermare.