promo racconto

L’ultimo venerdì di aprile – giorno di toccata e fuga in Lombardia, con sempre troppo poco tempo per tutto il da farsi – sono tornata lì, nell’angolo di verde del parco del Curone che si vede nell’immagine.
In quel ruscello, si racconta nuotassero gamberi di fiume che avevano contribuito a sfamare gli abitanti in tempi grami, come i frutti del bosco: castagne, funghi, fragoline… Una delle prime volte in cui l’ho osservato, camminando sulle sue rive con Pedro, ho visto una salamandra, ferma su un sasso, con la pancia pulsante a ritmo, gli occhi a fessura, ma in apparenza per niente impaurita. Una salamandra, vera, viva! Lo stupore immediato è stato quello di una bambina di città, la stessa descritta da tutti gli stereotipi: forse più informata, dato che, ai tempi, una salamandra almeno disegnata l’avevo vista sulle pagine di Conoscere e forse anche alla Tv, nella trasmissione di Angelo Lombardi, L’amico degli animali.
Avevamo da trascorrere un’oretta di intervallo tra il pranzo e l’ultimo impegno prima di ripartire, e il percorso lungo il torrente, oggi molto curato e tranquillo, ci è parso il posto migliore per far sgambare Giatt, che sopporta con molta pazienza questi tour de force, ma patisce di ritrovarsi in spazi sconosciuti, circondato da persone ignote. In quella zona era già stato un paio di volte, era possibile che riconoscesse il posto, l’orario era perfetto per evitare di incontrare qualche estraneo, perché a quell’ora in Brianza sono tutti a casa a mangiare.
Appena sganciato dal guinzaglio, Giatt si è lanciato a caccia di odori, con una intraprendenza inconsueta su percorsi inesplorati. Infatti, con una spavalderia nuova per lui, ha preso la direzione del ponticello. Non ci eravamo mai avventurati con lui lì sopra, non lo avevamo mai attraversato per proseguire lungo il sentiero nel boschetto, fino alla radura che si stende tra quel punto del torrente e la sua curva più a destra a risalire la corrente; è uno dei luoghi in cui Pedro, cucciolo e poi adulto, si era formato.
Abbiamo guardato in silenzio, schiavi della nostalgia, divisi tra la gioia di vedere Giatt felice, attivo e dinamico e la tristezza del ricordo, desiderando entrambi l’impossibile: avere tutti e due, insieme, con noi.
Ci è parso di vederlo: pancia a terra, Pedro la attraversava tutta di corsa, quella radura, avanti e indietro e ancora avanti, doveva arrivare ai margini del boschetto, rincorrere qualche leprotto di cui spuntavano le orecchie tra l’erba e poi tornare da noi. Se l’erba era alta, la corsa diventava una serie di balzi da gazzella, rimasti indimenticabili: pareva avesse le molle, saltava e restava in aria, quasi in volo, sospeso per qualche attimo, le zampe posteriori radunate con i polpastrelli, in aria pure loro, e spostate di lato, a destra e a sinistra alternativamente. Allo stesso modo saltava quando gli lanciavamo un sasso, che spariva nell’erba, che lui non trovava, che cercava lo stesso, naso a terra e coda vibrante come il legnetto di un rabdomante, e poi tornava a farsene tirare un altro.
Ho visto Andrea chinarsi a raccogliere qualcosa e ho immaginato cosa volesse fare.
Non ho detto nulla, lui mi ha guardato e «Voglio provare…» ha bisbigliato.
Ho pensato che mai Giatt avrebbe cercato il sasso: erba troppo alta per lui, tracagnotto, potente ma poco elastico com’è; di solito, gli lanciamo legnetti in spiaggia o nell’orto: a dire il vero, se li trova da solo perché ne ruba dai mucchi che proviamo a radunare.
Andrea mi ha letto tutto in viso ma ha ugualmente richiamato la sua attenzione.
Lui si è avvicinato più incuriosito del solito, senza traccia alcuna di timori.
Ha guardato il sasso e intuito il lancio, ha teso più che ha potuto le orecchie (che hanno ispirato il suo nome), ha sollevato una zampa anteriore, come i cani da caccia in punta.
Pareva un altro, come se quel luogo gli fosse noto, un richiamo della foresta.
Pareva che torrente, boschetto, radura fossero un abito indossato abitualmente.
Pareva su un altro pianeta: la noncuranza per il mondo in quel momento circostante era insolita.
Il sasso, lanciato non troppo lontano, è ricaduto con un tonfo che ha individuato.
Ed è partito.
Noi siamo rimasti, lì, come due ebeti, a ridere e a piangere insieme, abbracciati mentre lo guardavamo comportarsi esattamente come suo “fratello”: stesso balzo, stesse movenze, identica posizione delle zampe, quelle dietro, più corte le sue, un po’ sproporzionate rispetto ai cosciotti. Unica differenza, una minore resistenza o una più scarsa intenzione e pervicacia, rispetto a Pedro. Un niente, in realtà.
In quel momento, straordinario, è stato come averli entrambi, insieme per un istante.
E mi sono chiesta se tutto ciò che ho immaginato e tradotto in pagine scritte e romanzate non sia potuto accadere davvero. Forse il mio raccontare è stato opera non mia, ma di qualcuno che ha parlato a noi, ha parlato a Giatt, ha guidato le mie dita sulla tastiera. E continua a farlo.

N.d.A.: sono due i libri ai quali mi riferisco. Se ne può leggere cliccando qui per Io ho sempre parlato e qui per Chiuse le pagine del libro. Acquistandoli, poi, aiuterete altri cani meno fortunati.