rileggendo Gino Cornaggia

Nascere a Milano, in via Cappuccio e portare il sonoro cognome di Cornaggia Medici, conservava nel 1899 significati diversi ma ugualmente pregnanti.

Gino è un bambino bellissimo: occhi grandi e chiari, boccoli di capelli lunghi come nell’Ottocento capita si lascino crescere ai piccoli, tanto che si distingue a mala pena tra maschi e femmine. È nato a fine secolo, il 3 ottobre 1899, nel palazzo di famiglia in via Cappuccio 21: una stretta via della vecchia Milano, una fila di portoni chiusi, di palazzi antichi e nobili, abitati dall’aristocrazia cittadina più fedele al Papa che allo Stato. Suo zio Carlo Ottavio però, fratello di suo padre Gerolamo, è favorevole ad inserirsi nello Stato unitario superando i divieti imposti dai palazzi vaticani. E si espone: amministra anche la cosa pubblica, compra e dirige un giornale – la Lega Lombarda – sostiene l’inutilità di un partito cattolico. Se si pensa che il suocero Tommaso Anselmo Gallarati Scotti era un severo intransigente, ligio alle direttive papali, si possono immaginare le discussioni.
Si erano conosciuti (forse) a casa Gallarati Scotti i genitori del piccolo Gino, durante una serata o un pomeriggio salottiero, abitudine elegante della buona società ambrosiana. Tullia Maestri Appiani d’Aragona è orgogliosa, un po’ irascibile, talvolta impaziente ma, educata ad una religiosità intensa e a rinnovare quotidiane promesse di vita spirituale, è in grado di controllarsi. Gerolamo Cornaggia Medici, dotato di un carattere a volte difficile, preferisce stare lontano dalla politica e un po’ in ombra, per vivere in modo più raccolto rispetto ai molteplici impegni pubblici del fratello Carlo Ottavio.
Tullia tiene un diario e parla del marito come di un «vero angelo di bontà»; si adopera perché regni la serenità famigliare e nei momenti di difficoltà si appoggia al consiglio e alla guida dei molti sacerdoti che frequenta, compreso l’arcivescovo di Milano card. Ferrari, che mostra sollecita benevolenza per lei e per il marito, «quel caro marchese che si innalza mezzo metro sopra gli altri». Gerolamo, da cui Gino eredita la statura, non la costringe alla vita mondana che lei non ama; la vicenda politica del cognato non la coinvolge; Tullia esercita la carità come dama di San Vincenzo, una di quelle che portavano i biscottini ai bisognosi – come erano definite dalle parti politiche avverse con ironia sprezzante. Perde tre dei suoi figli: Ginetta, Giuseppe e Antonio. Le restano Luigi il primogenito e Gino: sano, robusto, diritto e forte, di indole selvaggia, cresce però saggio, ragionevole e allegro: «è una bellezza, un vero pagliaccio e non ho mai riso tanto da un anno in qua».
Gino ha undici anni quando Tullia muore nel 1910. Privo del loro rapporto privilegiato, della figura su di lui più influente, resta solo: il padre si ammala, il fratello Luigi muore; lo zio Carlo Ottavio diventa un punto di riferimento, suscita grande ammirazione, quasi una venerazione ma tra zio e nipote non c’è sintonia, a causa della sostanziale differenza di caratteri che contrappone la riservatezza dell’adulto all’esuberanza del giovane. Le caratteristiche di Gino che Tullia aveva sottolineato sono un tratto distintivo della sua personalità: signorile ma attiva, entusiasta, quasi irruente in ogni campo frequentato.

Ragazzo del ’99, arruolato nel 1917, si lancia contro una mitragliatrice nemica e la cattura, comanda l’avanguardia in marcia verso Udine ed entra nella città liberata, primo ufficiale di cavalleria. Rischia il tribunale militare perché discute un comando, ma un Cornaggia Medici non può tacere di fronte a una carica contro il nemico in fuga. Tornato a Milano, inizia a esercitare la professione di avvocato, si arruola volontario nella Croce Bianca: a lui, abituato a guidare cariche di cavalleria, è affidato un gruppo di “solo” cento militi? Se ne meraviglia, ma si presta, opera, aiuta e scappa saltando dalla finestra quando una squadraccia fascista dà l’assalto alla sede di via Disciplini. Frequenta l’Unione Giovani di mons. Olgiati, che con metodi spartani educa giovani «dinamici, robusti, preparati, culturalmente agguerriti» e ne dirige l’organo di stampa: l’Azione giovanile. Il numero del 30 giugno 1929 è sequestrato a causa dell’articolo di fondo sul Concordato: articolo «generico e tendenzioso, anarcoide e lesivo dell’Autorità delle Leggi dello Stato». Il direttore è diffidato. Inizia a lasciare al giovane Giuseppe Lazzati la firma degli articoli di fondo, ma prosegue la propria opera di divulgazione della cultura cattolica presenziando ovunque riesca. La polizia fascista lo considera sospetto e lo controlla, lo segue in una gara di velocità che, nonostante l’iniziale tono di divertito compatimento con cui ne riferisce gli spostamenti, è destinata a perdere. Gino è infatti un corridore automobilistico dilettante, che dal 1931 al 1938 corre al volante di una Alfa Romeo la Mille Miglia e nel 1933 il Gran Premio di Monza. «El sciur marches, l’è un bel fundista», dice di lui un meccanico collaudatore della sua scuderia. Per Gino Cornaggia, lo sport non è solo attività fisica, ma soprattutto essere presenti e recuperare la filosofia del coraggio cristiano. La differenza tra cristianesimo e fascismo nel modo di intendere lo sport, lasciata intendere nei suoi interventi, inizia a insospettire la polizia che infittisce i controlli. I suoi interventi assumono toni futuristi, inneggiano alla velocità figlia del 900, invitano ad applicare le tattiche di corsa ai nuovi metodi dell’apostolato. La sua immagine di pilota, in contrasto con il cliché del clericale, attira i giovani che lo accolgono al grido di «Viva Gino». Sport, cultura e stampa sono gli argomenti che tratta con sottile abilità: evita accenni alla stampa fascista, ma è chiaro alla divisione generale di pubblica sicurezza che dietro il parafulmine della formazione culturale e religiosa la rete di influenze professionali e culturali si avvia ad assumere toni politici. Gli uomini si riconoscono, si affiatano, si stringono in gruppi sempre più omogenei e compatti. L’ultima segnalazione di Gino Cornaggia è del 1936: è ancora segnalato come sospetto antifascista ma sembra aver assunto posizioni più prudenti. Svolge intanto la professione di avvocato, con una notevole attività in Corte d’Assise tra il 1936 e il 1938. Si specializza in cause di incidenti stradali, lavora spesso gratuitamente, crede nella libertà della professione.

Nel 1940 è richiamato in Aeronautica a Perugia. Dal 1941 fino alla fine del 1942 rimane a Milano, ufficiale superiore addetto alla scuola della Malpensa, ma non riesce a star fermo: nonostante dicesse di essere l’uomo che si vuol conservare incolume per la battaglia successiva, vuole partecipare e partecipa ad azioni di guerra. Nel gennaio 1943 è trasferito al comando bombardamento della Sardegna e al comando raggruppamento aerosiluranti. Chiede con insistenza al suo superiore gen. Sala di partecipare alle operazioni di guerra. Ottiene di partire in due missioni armate alturiere su mare aperto e a una missione notturna con siluro.
Dopo l’8 settembre, è arrestato dai tedeschi, ma – racconterà a guerra finita – riesce a sfuggire: «Io vado a Messa» pare abbia detto con un tono e una determinazione tali da impedire sul nascere qualsiasi tentativo di seguirlo. Ovviamente, dalla Messa non torna. Le sue tracce si perdono; pare resti a Milano, nascosto tra città e campagna, per aiutare i partigiani nascondendo messaggi nel coro della chiesa di San Carlo. Al momento della liberazione partecipa all’occupazione del palazzo dell’Aeronautica in piazza Novelli. Inizia ad operare concretamente nella nuova amministrazione con uno spirito ben preciso che identifica la sua idea di ricostruzione: lasciamo i nostri diversi bagagli ideologici personali alla porta delle Istituzioni in cui entriamo e diventiamo operai dell’assistenza. Ampio spazio dunque all’azione sociale, che poi di per sé è politica, e all’«occorre partecipare» del card. Schuster come motto.
Fino all’ottobre 1946 si occupa di riorganizzare il Pio Albergo Trivulzio.
Inizia il suo impegno come assessore all’assistenza nel comune di Milano 14 febbraio 1947: fra i poveri che ama aiutare si muove con scioltezza, senso pratico e concreto, la filosofia ambrosiana diventa ancora una volta prassi. Bambini, anziani, malati, inabili e senzatetto: l’elenco dei poveri era lungo, pratiche e delibere erano lente, il più delle volte superflue di fronte all’evidenza e l’assessore Cornaggia interviene, anche di tasca propria, insofferente alle pastoie e ai lacci che limitano il movimento della sua generosa intraprendenza ambrosiana. Nessuno resta chiuso fuori dalla porta del suo assessorato: contatto diretto, promessa mantenuta, cavilli superati. Questa la sua cifra, poi tradotta in indirizzi organici che lo portano ad essere rieletto nel 1951 ma non ad avere ancora l’assessorato.
Si era candidato alle politiche nella campagna elettorale del 1948 nel collegio di Lodi. Dato per perdente in una zona rossa, non si era risparmiato in comizi: ad ognuno l’autista lo aspettava con il motore acceso. Entra in Senato nel 1952, al posto del sen. Perini, e presta sé stesso alla politica, la quale lo scambia per incapace solo perché si sottrae alle vuote astuzie dialettiche che la sua abilità oratoria di avvocato avrebbe potuto smontare in un soffio. Nelle due legislature successive si presenta nel collegio di Monza finché nel 1968 il partito non lo ricandida: accetta anche l’esclusione mai motivata, non ne comprende i motivi ma sceglie di non reagire. Portato alla composizione dei contrasti, diceva di sé: «Sai che io son come il Papa». La sua idea di partito e di politica lo rendono a un certo punto inadatto. Lui aveva preferito interpretarla come l’attività delle cose possibili che diventano tali grazie agli uomini che le realizzano.
Con l’interruzione dell’attività parlamentare viene meno anche la robustezza fisica. Decide di affrontare da solo e isolato il lungo periodo di malattia e di immobilità: un duro contrappasso affrontato con dignità. Nel suo testamento spirituale – redatto nel periodo del richiamo alle armi – saluta come prima di un decollo, quando avrebbe potuto morire in volo disintegrandosi in tanti pezzettini, ma non senza salutare gli amici con cui non si sarebbero mai rotti i vincoli spirituali.