©Amelia Belloni Sonzogni
Storia di ordinaria amministrazione. Ogni riferimento a fatti e persone è casuale.
La dottoressa Parpagliuolo entrò nella stanza 404, poggiò la borsa sulla scrivania, appese il cappotto all’appendiabiti e guardò, fuori dalla finestra, il cielo giallognolo milanese, tipico. Sospirò, rimpianse il panorama del golfo di Sorrento, lasciato di recente con un trasferimento “su” che sperava temporaneo. La domanda presentata per tornare “giù” aspettava in un cassetto i tempi tecnici necessari.
Sbadigliò. Aveva fatto tardi la sera prima, davanti alla televisione accesa mentre parlava al telefono con il marito rimasto a Sorrento.
Sentì bussare.
«Avanti» disse.
«Buongiorno, dottoressa. Ho il faldone udienze di oggi» annunciò il cancelliere, fermo sulla soglia.
«Buongiorno. Metta pure qui, sulla scrivania. È arrivato l’avvocato Saccolla?»
Il cancelliere depositò il faldone e rispose di non averlo ancora visto ma, per sicurezza, tornò alla soglia a controllare, infilando il collo tra le ante, pesanti e dotate di molla chiudi-porta; se gli fosse scivolata l’anta che teneva aperta con una mano, non lo avrebbe decapitato, ma quasi. Guardò bene, a destra, a sinistra, scrutò nel capannello degli avvocati praticanti fermi di fronte all’ufficio della Parpagliuolo, poi riferì:
«Non c’è, dottoressa. Se crede, torno ad avvisarla appena arriva, ché tanto deve passare prima da me per un’altra pratica».
La Parpagliuolo lo congedò con una smorfia della bocca – labbra sporgenti con angoli in giù, leggero piegamento a sinistra anche della testa – per dire che non era necessario.
«Piuttosto, mi dica – aggiunse mentre scorreva il primo fascicolo del faldone – la signora Tanzini come arriva in tribunale?»
«Credo in ambulanza, dottoressa».
«Se ne accerti, per favore» e lo congedò.
Il cancelliere salutò e uscì. Due passi dopo fu fermato da una coppia, adulti sulla cinquantina, sciupati.
«Mi scusi – chiese lui – posso chiederle per favore se siamo nel posto giusto per questa udienza?» e gli mostrò la citazione.
Il cancelliere lesse velocemente, accennò di sì e indicò una panca addossata al muro: «Aspettate qui, finché chiamano. La stanza 404 è questa da cui sono uscito».
Roberto e Angela si sedettero, stretti una all’altro, sentendosi due briciole scaraventate lì da qualcuno che dopo pranzo aveva scosso una tovaglia fuori dal balcone. Il corridoio del palazzo di giustizia era lungo, largo, alto, spropositato. Sono più o meno tutti simili, i palazzi di giustizia in Italia: mastodontici, squadrati, tipica architettura del ventennio, uno spreco di spazio che crea un’impressione di vuoto vacuo, poco consono a quanto sono deputati a tutelare.
Angela si alzò; era in tensione e non riusciva a stare ferma, ma muoversi in quello spazio enorme peggiorava il suo stato d’animo; Roberto la teneva d’occhio, pronto a individuare i sintomi delle crisi di panico che avevano ripreso a tormentarla negli ultimi mesi, pronto a intervenire perché si concentrasse sul respiro, per evitare l’esplosione della crisi. Mancava poco: mani fredde, affanno, sguardo agitato che si spostava da un capo all’altro del corridoio.
«Vieni – la prese per mano e gliela scaldò al solo contatto – andiamo a vedere se arriva tua madre».
Angela lo seguì, verso la rampa dalla quale erano saliti, affacciata su un pianerottolo che pareva una piazza d’armi; su quella, sbarcava anche un ascensore. Si rendeva conto di muoversi come un automa quando avrebbe dovuto avere, invece, il controllo della situazione. Si ripeté di non dover temere nulla, stava agendo per il meglio possibile. E di fronte al giudice le sarebbe bastato spiegarsi per essere compresa, ne era certa: chiunque avrebbe capito. Anche Roberto glielo aveva ripetuto, più volte, più del suo analista. E il certificato medico era già agli atti, insieme con il resoconto dettagliato dell’accaduto.
«Come la devo chiamare, secondo te?» chiese a Roberto.
«Chi? Il giudice tutelare?»
«Sì. Come la chiamo: giudice, dottoressa, signora?»
«Non importa, Angela: stai tranquilla; racconta l’accaduto e basta. Capito?»
Angela scosse la testa per dire sì, aveva capito e stava tranquilla, ci provava almeno.
«Guarda, è arrivata tua madre».
Distesa sulla barella sotto una coperta, con la schiena sollevata, era avvolta in un giubbotto che Angela non riconobbe come suo; i capelli bianchi in ordine, l’espressione per nulla smarrita, come aveva invece ipotizzato di vedere sul suo volto. Guardava ora l’uno, ora l’altro dei due volontari della Croce Bianca che la spingevano in cerca della stanza 404. Sorrideva ora all’uno, ora all’altro, gli occhi chiari piccoli e puntuti, lanciavano sguardi che si sarebbero potuti dire languidi se la signora Tanzini non fosse stata una cosiddetta “grande anziana”. Aveva anche perso il vezzo o vizio di togliersi una decina di anni abbondante a chi le chiedeva l’età; da qualche tempo si compiaceva di sbandierarla, considerato che le amiche della sua “classe” erano già tutte defunte. E se ne vantava, poi aggiungeva parole di cordoglio.
I volontari si fermarono a chiedere indicazioni a un inserviente che spingeva un carrello carico di faldoni. Uno domandò, l’altro tenne a bada la grande anziana che gli disse, con tono melenso: «Sa che lei assomiglia a un cantante che ho visto ieri sera? Si chiama Pat, Pat Boone e mi ha dedicato la canzone che ha presentato al Festival».
«Ah… – rispose il volontario in modo solo in apparenza evasivo. Prestò invece molta attenzione a quello che la signora Tanzini diceva – è un cantante che non conosco, ma quale festival?»
«Di Sanremo! Certo, lei è giovane, è un cantante degli anni… mah, non mi ricordo quali, passati».
«Però l’ha visto ieri sera, in televisione. O no?»
«È bellissimo! Ha detto che mai mai mai amerà qualcun’altra dopo me, Valentina».
«Quindi, Tina è il diminutivo di Valentina. È il suo nome, signora?»
Il volontario diede uno sguardo alla cartella clinica (Tanzini Tina, nessuna traccia di Valentina). Cercò di capire se la grande anziana fosse lucida, se stesse bene, se vaneggiasse e quindi fosse il caso di riportarla in ospedale.
Angela e Roberto approfittarono di quel momento per avvicinarsi.
«Ciao, mamma» disse Angela. Ricevette per risposta uno sguardo sprezzante. La signora Tanzini si rivolse subito dopo a Roberto:
«Farabutto! Non la passerai liscia, vedrai» sibilò inviperita.
Roberto si allontanò, due passi indietro portando con sé Angela che, sempre più gelata e sudata, aveva stretto la sua mano.
Il volontario rivolse loro un muto sguardo di commiserazione; rispose al cenno del suo collega che lo stava chiamando; farfugliò “scusate” e spinse la barella nel corridoio davanti alla stanza 404. Bussò, la porta si aprì e la dottoressa Parpagliuolo apparve in controluce seduta alla scrivania. A un suo cenno, i volontari infilarono la barella nella stanza e uscirono, mentre, trafelato, con il cappottino striminzito, sbottonato sul completo liso alle ginocchia, la cartella vuota nella mano sinistra, arrivò ed entrò un uomo sulla trentina, piccolo, tondo, pelato.
«Avvocato Saccolla, alla buon’ora! – si sentì la Parpagliuolo esclamare – Almeno il giorno della sua nomina, la puntualità! Non crede?»
La porta si richiuse sulle scuse approntate lì per lì.
Angela e Roberto, che avevano seguito barella e scena, si guardarono. Lei aveva gli occhi lucidi e spaventati.
«Non piangere, non vale la pena» provò a calmarla Roberto.
«Ancora offese gratuite, insulti, e hai notato lo sguardo?»
«Ci importa? No, non mi scalfisce neanche».
«Perché non puoi entrare con me?»
«Perché solo tu hai titolo per entrare».
«Lo so, lo so».
«Si renderanno conto, vedrai. Sarà forse una cosa più lunga di quanto pensiamo, d’altronde devono essere convinti per prendere una decisione. Tu stai tranquilla, mi raccomando: racconta, rimani lucida, senza arrabbiarti».
«Angela Baldi? È lei, signora? Prego, si accomodi» la invitò la dottoressa Parpagliuolo.
L’avvocato Saccolla era vicino alla barella; teneva una mano sulla spalliera e provava a stare attento sia al giudice, che stava per interrogare la Baldi, sia alla signora Tanzini, che gli parlava in continuazione, bisbigliando:
«Chi le piace? Mi dica, Milva, le piace? Nel più bel sogno ci sei solamente tu… Con quella bocca larga! E la Berti? Quattro vestiti, quattro colori… ah, no, questa è ancora Milva. Ha visto che vestito a strisce, la Berti? Pareva una zebra. Una zebra a pois, me l’ha data il maraja… vecchia canzone di Mina. Ah, Mina! La più brava, secondo me; lei che ne pensa? Le piace o no?»
Saccolla provò a zittirla ad ogni punto interrogativo, ma non ci riuscì. Intanto Angela rispondeva alle domande della Parpagliuolo, ma le risposte gli arrivavano monche.
«Preferisce gli uomini, per caso? Beh, che male c’è. Endrigo, per esempio, secondo me è bravissimo: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Oppure quella del tavolo, la conosce? Per fare un tavolo ci vuole il legno, ma poi alla fine ci vuole un fiore. Grazie, dei fior! Anticaglia dei miei tempi. Oggi c’è più ritmo, più ye-ye, più rock. Voglio una vita, spericolata! Non mi ricordo se l’ha cantata al festival oppure no».
Tina Tanzini continuava a distrarre il Saccolla con citazioni che gli ricordavano qualcosa raccontato dai propri genitori, risaliva a quando loro erano bambini. Lui, il festival di Sanremo, non lo aveva quasi mai visto. Voleva sentire il dialogo tra la Parpagliuolo e la Baldi ma riuscì a coglierne solo una parte:
«Il certificato medico che ha presentato è chiarissimo, signora. Lei di sicuro non è in grado di occuparsi di sua madre in questo momento».
«Perciò mi sono rivolta a lei. Mia madre non può più stare da sola come pretende; non è più in sé: sembra lucida ma non lo è, le assicuro. Ha delle fissazioni, convinzioni su episodi mai accaduti, confonde il presente con il passato, la realtà con la televisione. Le ho scritto tutto nella richiesta agli atti, l’avrà letta; se ne renderà conto anche lei».
«Dopo esaminerò sua madre. Agli atti ci sono i referti degli specialisti che l’hanno visitata in occasione del ricovero per la frattura del femore. Dicono il contrario di quanto lei sostiene».
«Lo so, ero presente; in due minuti cosa possono aver dedotto? Loro non ci hanno vissuto a contatto diretto e quotidiano per una vita intera, non hanno…».
Saccolla fu di nuovo fagocitato dalla grande anziana che mostrava per lui una particolare simpatia. Gli sorrise e gli disse, questa volta:
«Quello lì però, che vuole la vita spericolata, a me non piace tanto, sa? Sembra uno che si lava poco. Invece Bobby, Bobby Solo, ah, è bellissimo! Una lacrima sul viso ha svelato il tuo segreto, dopo tanti e tanti mesi ora so… e poi Domenico Modugno! Litigavo sempre con mio marito perché a lui non piaceva, diceva che ha la bocca a culo di gallina, ma si può? Però, sa, a mio marito piaceva scherzare e stuzzicare».
La Parpagliuolo lanciò un’occhiataccia di sbieco al Saccolla che provò a far tacere la grande anziana, ma questa proseguì imperterrita, alzando anche il tono della voce:
«Mio marito prendeva sempre in giro tutti, anche mia figlia: litigavano per la Caselli e i complessi beat, tutti quelli che partecipavano al festival, e Claudio Villa! Oh, su quello si scannavano, per ridere, si intende, lui e mia figlia, quella lì, seduta là».
E indicò Angela con un cenno del mento.
«La guardi: com’è diventata brutta a stare con quello là, che è rimasto fuori; non ha avuto il coraggio di entrare».
«Non è entrato perché non gli compete – spiegò il Saccolla – e lei signora potrebbe per favore abbassare la voce?»
La grande anziana si mise un dito sulle labbra, a promettere il silenzio, però riprese:
«Ma la vede? Pare una zingara per come è combinata. Prendi questa mano, zingara, dimmi pure che destino avròòòòò».
Saccolla non trovò di meglio che tossire per mascherare il tentativo di acuto; quindi, riprovò a concentrarsi sulla Parpagliuolo che parlava:
«Capisco, signora Baldi; tuttavia, se lei era così sicura di quello che mi ha riferito, che ha scritto nel ricorso al giudice tutelare perché sua madre sia assistita in modo adeguato, avrebbe dovuto presentare un certificato medico anche per sua madre. Perché non l’ha sottoposta a una visita psichiatrica? O anche di uno psicologo».
«E come? Contro la sua volontà? Che valore avrebbe avuto?»
«Ah, nessuno, ovviamente. Sua madre doveva essere consenziente, come lo è stata in ospedale».
Saccolla si sentì tirare per la manica della giacchetta:
«Non ha l’età, non ha l’età per amarlo… sto adattando le parole alla vicenda di quella lì seduta là. La canzone è della Cinquetti, ecco sì, la Cinquetti è un tipo che potrebbe piacerle, avvocato, non è vero? Forse un po’ troppo alta per lei, in effetti: sembrereste l’articolo il».
«Signora Tina, guardi – la interruppe Saccolla – il giudice le vuole parlare».
La Parpagliuolo si avvicinò alla barella, sorridendo.
«Ancora? Le ho già detto tutto prima. Cosa vuole sapere?» disse la grande anziana guardandola diritto negli occhi, con un’aria di sfida.
«Sa dove si trova, signora?»
«Certo: in tribunale».
«Per quale motivo?»
«Perché lei mi deve aiutare, tutelare».
«In che anno siamo?»
«2011, perché?»
«Mese e giorno?»
«Febbraio, il mese di Sanremo!»
«E il giorno?»
Tina Tanzini ebbe un momento di esitazione. Angela sperò che fosse un primo indizio utile a far vacillare le certezze del giudice. La Parpagliuolo invece aveva sorriso condiscendente e continuava a sorridere per non mettere in difficoltà la grande anziana. Dato che il giorno pareva non affiorare alla memoria, cambiò tattica:
«Tra poco lei finirà la riabilitazione; come si sente, signora?»
«Bene!»
«Come pensa di riprendere la sua vita e le sue abituali occupazioni?»
«Torno a casa mia, finalmente».
«Sì, ma per qualche tempo non potrà ancora camminare, le serve un aiuto».
«Non credo proprio, ho sempre fatto da me; alla peggio, chiamo qualcuno».
«Se invece, per questa volta, decidessi di farla aiutare da una persona?»
La grande anziana parve incerta, non seppe rispondere con prontezza; Angela sperò che la Parpagliuolo vi prestasse attenzione. E cosa stava bisbigliando il Saccolla con sua madre?
La grande anziana d’un tratto disse: «Oggi è il 20 febbraio» e poco dopo: «No, aspetti: il 21, oggi è il 21 febbraio». Guardò riconoscente il Saccolla che guardò la Parpagliuolo che riprese:
«Esatto, signora Tina, oggi è il 21 febbraio. E si ricorda cosa ha fatto ieri sera?»
«Certo: ho guardato alla televisione il Festival di Sanremo. E lei, l’ha guardato?»
«Avevo la televisione accesa, però non guardavo niente. Ma ieri sera era domenica. Sicura che ci fosse il festival?»
La grande anziana e il Saccolla si scambiarono uno sguardo breve ma intenso.
«Mi sono sbagliata, era sabato, l’altro ieri, ieri l’altro. Dura un po’ di giorni».
«Ah, ecco, mi sembrava. E non so neppure chi ha vinto».
«Lo so io!» esclamò la grande anziana, con aria gioiosa.
La Parpagliuolo formulò la domanda quasi ridendo, quasi sorpresa di se stessa:
«Chi ha vinto Sanremo?»
Ci fu un momento di silenzio, poi arrivò la risposta:
«Un vecchio, no aspetti, Vecchioni».
«Ah, bene. Ascolti, signora Tanzini, cosa ne dice se decido di affidarla all’avvocato Saccolla che sarà il suo sostegno, fino a quando si rimette in piedi?»
La signora Tanzini, sorridente e con un certo languore negli occhi, guardò il Saccolla, poi canticchiò: Angelo, prenditi cura di me.
Saccolla la rassicurò, aprì la porta e chiamò i volontari. La Parpagliuolo salutò la grande anziana precisando che poteva in qualsiasi momento ricorrere a lei, congedò Angela in modo sbrigativo e si sedette alla scrivania. Prese la penna, firmò e chiuse il fascicolo.
Per la cifra di euro seimila annui più rimborso spese a carico dell’assistita, il giudice tutelare Clementina Parpagliuolo nominò l’avvocato Maurizio Saccolla amministratore di sostegno della signora Tina Tanzini, che – si lesse nella disposizione – si era mostrata bene orientata nel tempo e nello spazio, in grado di capire cosa le si stava chiedendo e aveva fornito risposte pronte e pertinenti, ricordando particolari di un certo rilievo. Da rivedere tra un anno, dopo il festival di Sanremo.
[in Generazione Over60, febbraio 2024]
©Amelia Belloni Sonzogni