©Amelia Belloni Sonzogni
Ogni volta che esco – non proprio ogni volta, ma molto spesso – acquisto un biglietto della lotteria e cerco di farlo sempre in un posto diverso: nel botteghino sotto i portici di corso Vittorio Emanuele dal cieco che lo strofina sul portafortuna, all’edicola di una stazione in cui scendo se mi capita un viaggio, breve o lungo che sia, o a quella vicino a casa quando ci passo (mi piace abitare vicino alle stazioni, trovo sia comodo specie nelle grandi città). Dissemino così, il più possibile, i miei tentativi di acchiappare la fortuna o di farmi notare da lei, nella speranza che mi colpisca.
Prima o poi, capiterà. D’altronde, me lo hanno predetto.
Passeggiavo con un paio di amici e compagni di classe in corso Roma, nella mia cittadina natale; era un giorno di inizio estate, la scuola era quasi finita e facevamo programmi per andarcene al fiume, liberi dalle lezioni, quando una voce mi apostrofò:
«Ehi, bel giovanotto, dammi la mano: te la leggo».
Era una donna bruna, con gli occhi chiari: una maga, una zingara, una chirologa, non so e non so neppure da dove venisse; apparve, quasi dal nulla e non c’erano circhi o giostre o luna park in zona in quei giorni. Ricordo benissimo la sua voce, il tocco leggero dei suoi polpastrelli sul mio palmo sinistro e poi sul destro, per seguire le linee della vita, dell’amore, della fortuna; parlava sottovoce e io, in realtà, non badavo a quel che diceva perché non credevo e non credo a queste divinazioni. I miei amici poi, ridacchiavano con battutine allusive ad ogni sua parola, rendendo tutto molto confuso, irrilevante, scherzoso. Ne ero dispiaciuto per lei che mi sembrava invece seria e assorta; non badava a loro, ma io con le peggiori occhiatacce tentavo lo stesso di farli smettere. La lettura delle mani si concluse con un’affermazione un poco brusca, pronunciata con tono più alto e quasi di corsa:
«Nella tua vita ci sarà una grossa vincita».
Dopo averlo detto, la donna mi chiuse, con le sue, le mani a pugno e se ne andò, senza chiedere nulla; sparì dietro l’angolo di una via laterale.
Non ho mai dimenticato quella frase, rimasta impressa come una promessa da mantenere. Da allora, ho tentato la sorte: no, non sono diventato un giocatore d’azzardo; anzi, credo non ci sia nulla in me di più lontano da questa patologia; però ho sempre comprato qualche biglietto delle lotterie. I primi sono stati della lotteria di Tripoli, un circuito automobilistico sul bel suol d’amore. Saranno in pochi a ricordarsene, forse per sentito dire. Risale ai tempi dell’impero fascista…
Quella profezia si è trasformata in una chimera da inseguire; resta a lungo silente, riappare, si mostra in un bagliore e se ne va di nuovo. Riuscissi ad afferrarla, una volta almeno!
È una fissazione, sostiene bonaria mia moglie, attenta a spendere bene ogni lira guadagnata. Riconosco senza titubanze la sua oculatezza, parsimoniosa al centesimo, il contributo costante che dà alla nostra vita familiare, al nostro bilancio: mai una sbavatura, un eccesso, una concessione. Qualche volta la rimprovero, amorevolmente; se non se li concede lei, gli strappi alla regola, ci penso io: una serata al cinema sotto casa, una leccornia acquistata nella nostra gastronomia di fiducia; il signor Regalini cucina un merluzzo da leccarsi le dita e qualche volta ne prendo un paio di porzioni perché non si riesce a scucirgli la ricetta, nonostante mia moglie gliel’abbia chiesta un’infinità di volte, con l’intento di risparmiare, ovviamente. Panettiere, fruttivendolo, lattaio, salumiere ci servono tutti con una cortesia che avverto sincera. Il signor Cerri, il droghiere, dal quale ero passato a ritirare degli acquisti già pagati, una volta mi ha detto: «Eh, caro signore, lei può star sicuro che con sua moglie non andrà più in malora!»
La battuta mi aveva fatto sorridere, ma le parole avevano prodotto più di una riflessione e, mentre prendevo il pacchetto che mi porgeva dall’alto del bancone in vetro zeppo di merci, gli rispondevo che aveva proprio ragione.
Lavoro e risparmio, rinuncia e sacrificio: ci siamo costruiti così la nostra esistenza appena sposati, nel 1946: l’anno della Sisal! Cos’è? L’antenata del totocalcio.
Giocavo tutte le settimane, con la puntata minima, pochi spiccioli, diventati sempre più preziosi con il passare degli anni e delle necessità. La schedina! La conservavo con cura, infilata nel portafogli fino alla domenica sera. Avvertivo cadere su di me lo sguardo di mia moglie, di indulgente sopportazione, quando controllavo l’esito delle partite di calcio (delle quali non mi è mai importato nulla) per verificare i punti totalizzati. Un bel 13 al totocalcio! Mi leverei una soddisfazione, potrei provvedere a qualche immediata esigenza senza aspettare di aver radunato la somma necessaria alla spesa e metterei da parte il rimanente, per il domani, per un domani, per una vecchiaia tranquilla e perché lei, nostra figlia, abbia un sostegno; glielo dico sempre: «pan e pagni, ien bon compa’gni» (pane e abiti sono buoni compagni).
Un bel 13 al totocalcio non mi è mai capitato, ma non demordo: ogni sabato gioco le mie due colonne; per compilarle uso spesso un aggeggio a forma di galletto ruspante: lo agito e la pallina di metallo che gira su una piccola roulette si ferma su 1, X, 2. Mi affido a lui, che capisce di pallone molto più di me.
Non ricordo più se lo abbiamo usato, io e mia figlia, per compilare quella colonna: «Papà… abbiamo fatto 12!»
Quasi non ci si credeva. Come eravamo contenti! La cifra vinta era bassa – quarantaseimila lire – e gliel’ho lasciata tutta per comprarsi un paio di pantaloni nuovi da Brigatti, il suo negozio preferito, di fronte al quale si ferma sempre, in corso Venezia; ma la soddisfazione! Ho sperato fosse un preludio, una sorta di stuzzichino prima dell’avverarsi della famosa predizione.
E sto ancora aspettando.
Intanto, visto che invecchio e le occasioni per gironzolare si diradano, ricordo sempre a mia figlia di comprare un biglietto della lotteria.
«Quale, papà?» mi prende in giro, talvolta, e ne ridiamo insieme. Merano, Agnano, Monza, Capodanno… una vale l’altra. E visto che ha preso la patente e guida, oltre alle stazioni è il caso di fermarsi negli autogrill. Ho notato che la dea bendata li predilige. Bisogna diversificare gli “investimenti”, o no?
Mi guardano sorridendo, le mie due donne, scuotono un po’ il capo e mi compatiscono – lo so, me ne accorgo anche senza guardarle – quando la mattina di ogni 7 gennaio – come oggi per esempio: 7 gennaio 198* – biglietti in una mano, giornale nell’altra, controllo accuratamente – molto accuratamente – se per caso uno dei miei sia stato estratto almeno come premio di consolazione. Non sono tra i primi neppure quest’anno: lo so da ieri sera.
«Venduto a Milano… ho preso la serie… i primi numeri… niente, anche questa volta. Pazienza! Riproverò» borbotto tra me. Per sicurezza – potrei aver letto male – chiedo a moglie e figlia un controllo incrociato; è inutile, lo so, però potrei anche essermi sbagliato.
Penso agli studi, alle lezioni ricevute e impartite, agli insegnamenti sul risparmio, l’investimento, il lavoro. Al valore del denaro, quando è guadagnato con onestà. E questi biglietti mi sembrano un po’ ridicoli. Caramelle, bonbon, una golosità che mi concedo, uno spiraglio che lascio aperto alla sorte. Entrasse, sarebbe bene accolta.
Penso al senso del denaro: meglio averne più dello stretto indispensabile per vivere con animo più disteso, per lasciarlo a chi c’è dopo di te, ma oltre? Che te ne fai, a parte usarlo per aiutare chi non ne ha? Ecco, così questi biglietti mi sembrano meno ridicoli.
Le lotterie si sono ridotte di numero nel tempo; mi pare che, da quando ci siamo lasciati, si sia ricordata qualche volta di prenderne almeno uno, poi ha smesso; si è stancata o dimenticata o ha avuto altri pensieri. Non le è più importato di controllare dove finissero tutti quei soldi. Se li vincesse, li spenderebbe bene, lo so, gliel’ho insegnato io e sono certo di quanto ho trasmesso. Ricordo ancora il giorno in cui le ho regalato quel salvadanaio a forma di cassaforte in miniatura: le era piaciuta tantissimo e la teneva come uno scrigno prezioso, per le paghette e i regali dei nonni a Natale. Ogni tanto la scuoteva per valutarne il peso. Ora ci infila i ramini, gli spiccioli di resto. La svuota di rado, preleva qualcosa ogni tanto, quando sa di doverli infilare in qualche macchinetta, per pagare un parcheggio, ad esempio.
Sorride e pensa a cosa le avrei detto, oggi, 7 gennaio 2024, nel constatare che Milano è stata ben baciata dalla fortuna. Chissà perché le è venuta la curiosità di controllare. Forse – in ritardo, ma pazienza – avrà sentito il mio suggerimento:
«Ricordati di comprare un biglietto. Potrebbe essere quello giusto».
[in Generazione Over60, gennaio 2024]
©Amelia Belloni Sonzogni