©Amelia Belloni Sonzogni
«Ripeti con me: per una donna, l’insegnamento è l’ideale».
Ho sentito questa frase tante volte che credo ne fosse imbibito il capezzolo materno, poi sia stata diluita nel latte della colazione e inzuppata con i biscotti al Plasmon, ma non era abbastanza. Per dimostrarne la veridicità, occorrevano esempi concreti; perciò, mi è stata fatta frequentare la scuola ben prima dell’età scolare.
Si coglieva ogni opportunità perché prendessi confidenza con l’ambiente, che mi apparve enorme e luminoso. Porte larghe e altissime, pesanti, di vetro; un mappamondo luccicante al centro dell’atrio, immenso; corridoi che si aprivano come braccia lunghissime; iscrizioni che non sapevo leggere incise su lastre di marmo imponenti; un’urna contenente – mi spiegò mia madre – l’acqua del Piave: un fiume importante, ci aveva combattuto anche il nonno durante la Prima guerra mondiale.
Tenendomi per mano, mi portò con sé in una stanza, con finestre smisurate dalle quali entrava una luce tanto abbagliante da impedirmi di distinguere la fisionomia delle signore intente nel loro lavoro. Doveva essere un giorno in cui le lezioni non erano ancora iniziate, ma tutti erano già all’opera. Dalle scrivanie si alzavano pile di cartellette amaranto, rigide, tenute da un elastico: una alla volta scendevano sui tavoli tra le mani esperte delle segretarie per essere aperte, consultate e poco dopo riposte sulla pila dirimpetto, dall’altro lato, sull’altro angolo; nel mezzo una fila composta di calamai, penne, matite, scatolette di latta aperte su un tampone bluastro e uno strano raccoglitore che teneva appesi, quasi per il collo, degli aggeggi di legno e metallo: cosa sono, mamma? I timbri della scuola, non toccare. Ma una delle signore prese un foglio bianco, un timbro e me li porse, poi guidò la mia mano, sul tampone e sul foglio: schiaccia forte! Sorrisi, divertita e restituii il timbro quasi subito.
«La Signorina Direttrice, è libera?» chiese mia madre con un certo ossequio, indicando una porta chiusa all’interno di quella stanza. Mi rimase la curiosità di vedere questa signorina direttrice che immaginai importantissima, considerata la nota di timore riverenziale nella voce di tutti. Non c’era. Andammo allora lungo un corridoio. Mi venne incontro Mafalda: rotonda, allegra, una cofana di capelli scuri raccolti a banana sulla nuca e un sacco di complimenti: fai presto a venire a scuola, così sarò la tua bidella. Capii poco, ma lei mi piacque subito. Intanto sbirciai la gigantesca doppia rampa simmetrica di scale, quel giorno lustra e deserta, che saliva verso i piani superiori, inondata anche questa dalla luce.
Doveva essere un giorno di settembre, ancora caldo, limpido e assolato.
Il processo di assuefazione proseguì con altre visite guidate, in altri spazi che – ormai era chiaro – sarebbero stati miei; così, il grembiule bianco con il colletto amaranto e il distintivo a rombo con le cifre ricamate «LdV» (Leonardo da Vinci) cucito sul petto, il tricolore di carta da sventolare, il sacchetto di monete dorate di cioccolato – da mangiare pensando però al salvadanaio da riempire nella giornata del risparmio che si festeggiava il 1° ottobre – non furono una sorpresa nel mio primo giorno di scuola: ne avevo già vissuto qualcuno, tra quelli degli alunni di mia madre.
La scuola per me ebbe a lungo le sembianze, la struttura, il tempo scandito dalla campanella dell’istituto, milanese e di una certa fama, in cui insegnava lei che, nell’anno scolastico… non mi ricordo quale, se fosse stato possibile esaudire tutte le richieste, avrebbe avuto una classe di ottantadue maschietti. Decise per tutti, come Salomone, la Signorina Direttrice: minuscola, magrissima, sempre in perfetto ordine e trucco, non un capello scappato dalla retina che tratteneva il grigio chignon, e capace di incutere una soggezione non comune. Anche perché era ubiqua: poteva sbucare ovunque e in qualunque momento, e dove non arrivava lei, arrivavano i capiscala o controllori (diventati tali per meriti scolastici) che erano i suoi occhi e le sue orecchie, sistemati nei punti strategici per mantenere l’ordine, segnare contravvenzioni e riferire ritardi, o passi troppo veloci, o fuori dalle righe disegnate dalle piastrelle sui pavimenti dei corridoi. Su quelle si doveva camminare per raggiungere l’aula.
No, non sono mai stata caposcala. Non ho goduto privilegi né favoritismi e sopportavo a malapena quelle facilitazioni logistiche che mi differenziavano: uscire prima dalla mia classe per raggiungere mia madre nell’atrio mi toglieva il gusto di uscire da scuola come e con le mie compagne; passare l’intervallo in classe di mia madre, invece che nella mia, mi toglieva dal mio gruppo, ma mi dava l’esclusivo libero accesso all’ala maschile. Non ho mai più avuto tanti amici maschi come allora e alle loro feste di compleanno o carnevale mi sentivo una principessa.
«Ripeti con me: per una donna, l’insegnamento è l’ideale».
Scelsi di iscrivermi a lettere moderne perché amavo la letteratura e la storia; avevo aspettative confuse e non pochi dubbi sul mio possibile futuro lavoro del quale ogni tanto discutevo serenamente con papà: hai tempo, scegli con calma, suggeriva. Mia madre intanto ripeteva il suo mantra, con l’aggiunta di nuova sollecitazione: potresti iniziare a lavorare mentre studi, qualche supplenza nelle scuole, ho saputo da un collega che…
Mi scambiarono per una di loro gli studenti dell’Istituto tecnico Cattaneo schierati a picchettare l’ingresso nel giorno di sciopero in cui presi servizio. Eravamo di fatto coetanei. Impiegai non poco a convincerli che ero lì per sedermi dall’altra parte della cattedra e dovevano lasciarmi passare. Anche quella scuola era mastodontica, meno luminosa però, e ci aveva insegnato papà, da poco in pensione quindi vivissimo nel ricordo di tutti i suoi colleghi che mi coccolarono come una nipote prediletta.
Stabilii con le mie alunne una bella complicità. Erano più le volte in cui si giocava di quelle in cui tenevo lezione: d’altronde, supplendo un’insegnante di educazione fisica, era consentito e io mi sentivo dalla parte sbagliata della cattedra. Una fatica farsi dare del “lei” …
Fu destabilizzante, confesso, incontrare per caso una di loro al mare, teneramente per mano a un ragazzo per il quale avevo avuto una memorabile cotta: buongiorno prof! Sorrisi, imbarazzata per la combinazione del destino, per un ribaltamento di ruoli che mi scoppiò nel cervello e perché ricordavo di conoscerla, ma in quale scuola era stata mia alunna? Dopo il Cattaneo, infatti, ebbi altri incarichi in altre sedi. E dopo la laurea, in attesa che il moloch ministeriale partorisse i concorsi, insegnai la mia materia nell’istituto parificato nel quale aveva insegnato papà appena finita la guerra. Anche qui regnava con indiscussa autorità un’attempata signorina M. che gestiva tutto, più formosa e rumorosa della Direttrice e con qualifica diversa: segretaria tuttofare. Credo fosse stata platonicamente innamorata di papà – era bellissimo, simpatico, colto – quindi per questo motivo o per accertata incompatibilità tra noi, non ebbi vita facile. Nessuno dei suggerimenti di papà per tentare di espugnare la manifesta ostilità della signorina M. riuscì efficace: di lui avevo solo il cognome.
«Ripeti con me: per una donna, l’insegnamento è l’ideale».
Arrivò il giorno fatidico.
«Ninin, c’è una lettera per te».
Raggiungo papà in anticamera: la rigira tra le mani, quasi titubante nel darmela.
«Viene dal Provveditorato» mi dice, e mi guarda sbiancare: sa che temevo questo momento.
Apro, leggo, ho superato anche la prova orale del concorso a cattedre, primo tra quelli a cui mi sono candidata, primo indetto dopo decenni.
Giro e rigiro la comunicazione. Sta capitando davvero: diventerò una insegnante, entrerò in ruolo. Mi sento incastrata in una funzione che non mi piace, in un lavoro che non sento mio.
Come ne esco ora?
Non ne esco.
Mi carico di un “secondo lavoro”, un volontariato per il quale mi prodigo; inanello pubblicazioni, raccolgo soddisfazioni, appaio persino in tivvù. Papà gongola soddisfatto e fiducioso. Mia madre commenta con una certa preoccupazione: non potresti accontentarti della scuola? Per una donna, l’insegnamento è l’ideale.
Arrivò il giorno fatidico, un altro, decenni dopo.
Mi apparve, scese su di me come manna, un anno sabbatico: pausa, respiro, attesa, nessun orario, nessun tragitto ancorché breve. Me lo presi, lo assaporai e questo bellissimo anno sabbatico mi disse chiaro e tondo che sarei stata folle a non decidere più per me stessa. Ogni volta che ripenso al momento in cui ho presentato le dimissioni dall’insegnamento, immagino davanti a me una cattedra: la prendo con le mani sotto il bordo lato docente e la ribalto di forza; i fogli impilati al centro finiscono tutti all’aria, svolazzano come la piuma di Forrest Gump e, quando si depositano a terra, appare chiara la scritta:
«Ripeti con me: per una donna, l’insegnamento è l’ideale».
[in Generazione Over60, settembre 2023]
©Amelia Belloni Sonzogni