©Amelia Belloni Sonzogni
La cartella clinica della degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 riportava le indicazioni degli addetti al turno di notte: la degente era stata sedata con una dose pesante per evitare che si rompesse anche l’ultimo osso rimasto intatto; perciò, al risveglio, se ricominciava ad agitarsi come ogni mercoledì, o si calmava da sola, oppure doveva restare sedata; fino a quando? Non c’era scritto. A sentimento, pensò l’addetta che prese le consegne.
A partire dal primo giro di cambio pannoloni, gli addetti del turno di giorno si prepararono quindi ad un impegnativo mercoledì.
Era il giorno della settimana in cui si teneva il mercato locale: quattro banchetti in croce, nel senso che si disponevano a croce nel parcheggio degli autobus sulla provinciale che collegava Riccò del Ragno al capoluogo di provincia; in questo modo creavano una sorta di piazzetta per gli abitanti che si trovavano lì a guardare la merce esposta, acquistare qualcosa di inutile e soprattutto spettegolare.
Fino a qualche mese prima, la degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 era il centro nevralgico del mercoledì, della piazzetta e delle voci maligne in circolazione.
Come in tutti i centri abitati minuscoli, anche a Riccò del Ragno non erano necessarie presentazioni ufficiali per dire che ci si conosceva e la degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2, conosceva tutti e tutti sapevano chi fosse. Poteva vantare infatti, come portinaia municipale, un vero e proprio archivio di informazioni e notizie da utilizzare a proprio piacimento e profitto.
Non vederla più arrivare, con la tipica andatura da cammello stanco, ruminante una cicca a bocca aperta, mentre rispondeva al telefono ai continui messaggi (piripipippi) che le arrivavano, era parso davvero strano.
La degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 si chiamava Loredana Bertilli ma tutti la conoscevano con il soprannome di «assessore senza timbro»: per il fatto di lavorare in Comune, rispondeva a qualsiasi indicazione le fosse richiesta all’ingresso – in quanto portinaia – come fosse l’autorità di volta in volta deputata a soddisfare ogni domanda e rilasciava documenti e permessi firmandoli con uno scarabocchio. Ai dubbi sollevati da qualcuno sulla validità del foglio che si ritrovava tra le mani, rispondeva convinta: «Di’ che non c’era il timbro».
Quando la cittadinanza di Riccò del Ragno aveva saputo dell’incidente subito, aveva per metà esultato in sordina e per metà mostrato apprensione e dispiacere. Al primo mercoledì di mercato assente l’assessore senza timbro, tutti si erano ripromessi di andarla a trovare appena possibile, in compagnia o da soli, ognuno per proprio conto: «Forse è meglio – si erano detti – per non creare confusione». E per non dar conto reciproco della mancata visita.
Loredana Bertilli giaceva ricoverata nell’ampia struttura ricettiva per disabili che serviva gran parte del territorio circostante, detta il Topolone perché collocata sul cucuzzolo dell’omonimo monte che sovrastava Riccò del Ragno. Ci era arrivata dopo un mese di degenza nell’ospedale del capoluogo, dotato di una pessima fama. Capitava sovente che i pazienti ancora in grado di discernere chiedessero ai soccorritori di essere portati altrove e anche Loredana Bertilli ci aveva provato, sforzandosi di parlare, ma era stata sopraffatta dai dolori causati dalla brutta caduta e dalle raccomandazioni dei soccorritori, chiamati da un passante occasionale che l’aveva vista a terra, davanti al cancello di una casa, che era poi casa sua, nel tardo pomeriggio di un mercoledì:
«Stia tranquilla, a lei pensiamo noi, come si chiama?»
«Lor… edana… Bert… illi… duta…». Erano state le ultime parole pronunciate.
«Vuol dire caduta? Da quanto tempo era lì per terra?»
Aveva alzato gli occhi al cielo.
«Non se lo ricorda, va bene lo stesso. Non si agiti. Sente male qui?»
Aveva urlato alla prima lieve pressione sull’addome, ma non si poteva più muovere anche perché l’avevano legata a una barella rigida. Monitoravano le funzioni vitali mentre l’ambulanza a sirene spiegate correva alla meglio sulle curve della provinciale.
I suoi vestiti, tagliati alla svelta per soccorrerla, erano finiti nel sacco degli effetti personali, insieme con un telo bianco, bandierine e palloncini colorati che stringeva forte tra le mani e i fili luminosi nei quali si era avviluppata, forse cadendo.
Il compagno, chiamato e arrivato con calma a vedere cosa le fosse capitato, non aveva saputo spiegare nulla.
Perché teneva stretti i palloncini e le bandierine colorati? E quel telo bianco a cosa serviva? E i fili luminosi? Erano i primi giorni di ottobre, dunque mancava ancora parecchio al Natale… Cosa si preparavano a festeggiare?
Dietro gli spessi occhiali da vista, l’espressione ebete dell’uomo era sembrata menzognera. Il medico, in forza delle lesioni riscontrate sulla Bertilli, aveva sospettato che il compagno potesse essere coinvolto e aveva avvertito le forze dell’ordine. Appurato però che non si era mai allontanato dal posto di lavoro, la caduta fu considerata accidentale. Dopo le prime cure, Loredana Bertilli era stata dimessa ma non era più in grado di vivere da sola a casa propria. Era diventata tetraplegica.
Da quando era stata collocata al Topolone, ogni martedì notte dava di matto fino al termine del mercoledì seguente: urlava versi senza senso poiché aveva perso l’uso della parola, strabuzzava gli occhi fissi poiché non riusciva più a muoverli, sputacchiava la saliva, densa come bava di animale, poiché era del tutto incontinente. Riusciva a muovere solo la testa e la scuoteva come un’ossessa, in ogni direzione, contro ogni ostacolo. Nessuno capiva il motivo di questo comportamento settimanale, diverso da quello tranquillo degli altri giorni; si ipotizzava potesse avere a che fare con il mercato, oppure con le bandierine e i palloncini colorati che vi aveva acquistato il tragico mercoledì della caduta.
«Allora, Berti – l’apostrofò l’inserviente addetto alle pulizie delle camere – apro le finestre così cambiamo l’aria, ché ne hai mollate stanotte a giudicare dalla puzza!»
La degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 emise un grugnito. Detestava essere chiamata Berti, una storpiatura del suo cognome.
«Cos’hai da brontolare, Lore – esclamò l’infermiera addetta al cambio pannolone – sei pronta per il cambio? L’hai fatta tutta? Non farmelo sprecare, eh!»
La degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 emise un altro grugnito. Detestava essere chiamata Lore, una storpiatura del suo nome.
«Oggi è mercoledì – annunciò l’addetta alle cucine mentre entrava nella stanza con un tablet per organizzare le possibili variazioni al menu – c’è il solito minestrone. Hai intenzione di sputarlo tutto anche questa volta, bellezza? Vuoi qualcos’altro?»
La degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 non grugnì più.
Gli addetti uscirono dalla stanza 72 dandosi di gomito e ridacchiando, senza compassione alcuna per la degente del letto 45 che dopo colazione andava spostata sulla carrozzina 2. Per farlo però si aspettava l’uomo di fatica che da qualche tempo era stato assunto proprio per spostare i degenti più pesanti, una sorta di facchino. Loredana Bertilli, ex bambina obesa, diventata adulta anoressica, nella condizione di infermità aveva iniziato ad accumulare peso.
«Vedo che ti sei calmata: era ora!» esordì il facchino, giunto di fianco al letto 45 e sollevò in un colpo solo le coperte lasciando in bella mostra il corpo inerte tutto rattoppato della degente che, per l’improvvisa nudità, rabbrividì.
«Oh, questa pelle d’oca è un segnale! – esclamò il facchino – Potrebbe significare che qualcosa senti. Non lo avrei mai detto. Forse oggi è il giorno giusto».
Se l’avesse osservata con attenzione, il facchino avrebbe colto sul suo volto un’espressione di speranza: il giorno giusto per cosa? Qualcosa di bello, forse? Questo sembrava dire con gli occhi e con la bocca aperta, storta, afasica.
Il facchino guardò la degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 senza vederla né tanto meno osservarla. Portò il telefono cellulare all’orecchio e attese la risposta dall’altro capo:
«Ciao! Sono qui davanti a Belfigor» disse ridacchiando.
Si sentì una risata dall’altra parte: «Questa è nuova, ma come ti vengono?»
«Eh, basta guardarla. È brutta come il mostro del teleromanzo ma crede sempre di essere una strafiga, anche conciata com’è. Come ho fatto a sposarla a suo tempo, ancora me lo chiedo».
«Pure io, ma perché mi hai chiamato? È il momento?»
«Direi di sì. Ho notato un segnale, potrebbe anche capire qualcosa».
«Arrivo!»
Il facchino chiuse la chiamata, infilò le braccia sotto il corpo della ex moglie, la sollevò e la depositò sulla carrozzina 2. Tolse dall’armadio uno scialletto da vecchia Abelarda e glielo mise sulle spalle, prese dal letto una coperta e gliela rimboccò sul corpo che infine assicurò in più punti alla sedia a rotelle con le apposite cinghie. Controllò che il capo fosse sorretto dai sostegni e li regolò perché la degente fosse comoda e stesse il più diritta possibile.
Quando arrivò il vassoio con la colazione, congedò l’addetta ai pasti offrendosi di pensarci lui:
«La imbocco io; oggi è un giorno speciale – spiegò – Loredana aspetta la visita che ha sempre sperato di…». Non terminò la frase perché all’addetta non importava un fico secco di sapere e non le pareva vero di essersi levata quell’incombenza odiosa almeno per quel giorno.
«Va bene, va bene, pensaci tu!» disse infatti e si allontanò veloce per terminare il giro.
Il facchino poggiò il vassoio sul carrello apposito di fianco alla degente, immobile sulla sedia a rotelle. La maschera facciale era fissa nella solita espressione, almeno così parve all’ex marito che, svuotata nel bagno la tazza del caffelatte, le si sedette di fronte e iniziò a parlarle:
«Ci siamo! Oggi riceverai la visita che immagino tu abbia tanto sperato di non ricevere».
Osservò con attenzione ogni minimo movimento dei muscoli del volto, in apparenza inespressivo, tranne qualche smorfia quasi impercettibile: un leggero abbassamento delle palpebre, una contrazione lieve dell’angolo sinistro della bocca. Niente di rilevante né significativo.
«Come lo so? Eh, ti conosco bene: conosco la tua malvagità e ho sperato con tutte le mie forze che ti capitasse qualcosa di simile. Non ho pregato, no; chi avrei dovuto pregare? Il diavolo che ti ha messo sul pianeta o quella specie di genitori dai quali sei nata per sesso anale? Avrei forse potuto corrompere quell’umanoide al quale ti sei accompagnata: quello, per i soldi di una dose, è disposto a tutto, ma non ci ho pensato, pensa un po’ che stupido».
La degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 emise un respiro più forte.
«Che fai, sbuffi? Ti dà fastidio la verità, eh? E non puoi replicare! Non hai idea di come rido a vederti così, inerte, inerme, incapace e costretta a subire. Godo come un riccio, anzi, una nidiata di ricci, quelli che ti facevano schifo come i rospi. Povere bestiole!»
Alla parola rospi, la degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 ebbe un altro brivido, ma l’ex marito non lo colse e proseguì:
«Lo sai vero? Lo sai perché in questo posto nessuno ti tratta con rispetto, con quel minimo di accortezza che si deve a un malato, chiunque esso sia? Sono sicuro che lo sai ma non lo ammetti, non lo ammetterai mai perché nella tua mente malata sei ancora convinta di essere il padreterno. Sai come ti chiamo quando parlo di te con i miei amici? “Sua Bertillità” e ridono tutti, perché tutti sanno chi sei veramente e non c’è essere schifoso sulla faccia della terra, nemmeno l’insetto più ripugnante, che meriti la sorte di esserti paragonato».
L’ex marito prese dalla tasca il telefono e controllò il messaggio che gli era appena arrivato. Poi riprese:
«Per oggi, ho finito. Ci vediamo al prossimo tragitto dalla carrozzina 2 al letto 45. Stai tranquilla, io non ti abbandono. Sarò qui, ogni giorno della tua restante miserabile vita e spero che camperai tantissimo. Ho una paga assicurata! Oggi vado via prima del tempo ma non temere, ti lascio in ottime mani. Guarda chi è venuto a trovarti».
Girò la sedia a rotelle verso la porta aperta sulla quale, dal vuoto del corridoio, era apparsa la sagoma di una coppia.
«Eccoli qui, tutti e due. Speravi di non vederli più? Sbagliavi. Avevi organizzato tutti i tuoi ridicoli festeggiamenti per l’occasione e l’occasione ti è caduta addosso. Ma come sarà capitato? Sei scivolata dalla scala? Non avevi inserito la chiusura di sicurezza? Si è aperto il cancello all’improvviso? Qualcuno ha azionato il telecomando? Non lo sapremo mai. Eri sola e sola sei rimasta».
Si rivolse alla coppia:
«È tutta vostra, divertitevi!» e se ne andò.
La degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2, immobile e impassibile per forza, vide i due che le stavano di fronte sorridenti e iniziarono a parlare tra loro:
«A te l’onore, mia cara. Dopo quello che hai subito da questa fetente, ti spetta di diritto la prima parola».
«Ti dirò, la lascio volentieri a te, che ricordi tutti i particolari meglio di me. Aggiungerò qualcosa alla fine, magari».
«Va bene. Dunque, sua bertillità con tutte le minuscole del caso, sappiamo che speravi di non vederci mai più tanto da festeggiare come i bambinetti dell’asilo e il cancello o la scala o il destino ti hanno finalmente dato quello che meriti. Chi è venuto a trovarti, di tutti i tuoi amici, finora? Nessuno, vero? Che ingrati. Vuoi dire che ti hanno sfruttato e succhiato come tu hai fatto con loro? Speravi nella riconoscenza? Anzi, la pretendevi, conoscendoti. Ho parlato con loro, giusto questa mattina, al mercato. Non verrà nessuno. Ho anche scambiato due chiacchiere con tutti gli addetti che ti devono manipolare ogni giorno. Ad alcuni fai ribrezzo, altri invece si divertono a maltrattarti, ma solo a parole, stai tranquilla: male fisico non te ne faranno mai! E anche da noi non hai nulla da temere, vero mia cara?»
«Ma certo!»
«Vuoi sapere cosa siamo venuti a fare? A vederti, combinata così. E continueremo a venire, vero mia cara?»
«Ci puoi contare!»
«Cadenza settimanale o quotidiana, ancora non sappiamo, ma ci saremo sempre perché la nostra speranza di vederti ripagata per tutto quello che abbiamo subito da te è stata esaudita e ne vogliamo godere in ogni istante».
«Ti ho portato un regalino – disse la donna mentre toglieva dalla borsa un sacchetto – è un rospo portafortuna. In realtà bisognerebbe strofinarlo o, meglio ancora, baciarlo e tu non puoi… te lo metto qui, sul comodino; basterà che lo guardi».
La coppia uscì salutando e chiuse la porta dietro di sé.
La degente della stanza 72, letto 45, carrozzina 2 iniziò ad urlare come tutti gli addetti avevano previsto. Nessuno si mosse. Ognuno continuò a svolgere le proprie mansioni in attesa che arrivasse dopo cena il facchino a spostarla dalla carrozzina al letto.
[in Generazione Over60, ottobre 2024]
©Amelia Belloni Sonzogni