©Amelia Belloni Sonzogni
È una certezza: lo farà anche oggi, tump!
Ogni mattina mi sveglio di soprassalto a causa di un colpo ben assestato sul muro. Dura da mesi, ormai, puntuale, all’alba. E non sono ancora riuscita a capire cosa lo provoca. Le prime volte ho pensato che fossero gli effetti finali, incandescenti, dell’intimità mattutina di chi abita oltre il muro. Si sa che al mattino si è più pimpanti… Lui, di sera, dev’essere inutilizzabile: rientra sempre trascinando i piedi, quasi gobbo sotto il peso della stanchezza; lei, invece, già rientrata da ore e uscita di nuovo pimpante con un borsone da palestra, torna a casa, più tardi di lui e ancora più pimpante: canticchia, fischietta, parla al telefono ad alta voce con qualcuno che saluta con affetto frettoloso prima di superare la soglia di casa. Forse, a ingobbire lui, non è la stanchezza, chissà. Ma v’è una certezza: lei sbatte il cancelletto di ingresso al suo appartamento. Lo farà anche oggi e tutta la recinzione rimbomberà: zbam!
Con il passare dei giorni e dei risvegli, mi sono resa conto che no, non poteva essere il botto finale degli amplessi di quei due, perché il colpo sul muro si ripete anche quando lui è uscito per andare al lavoro e pure la domenica, con una differenza variabile sull’orario. Dopo molto temporeggiare e sopportare, abbandonato ogni tentativo di scoprire l’origine del colpo, mi sono decisa. Ho atteso un occasionale incontro negli spazi comuni e ho provato a chiedere se per cortesia potessero attutire il rumore, da qualsiasi necessità fosse provocato. Mi sono rivolta a lei che mi ha risposto: «Io sbatto sul muro come e quando mi pare e piace, brutta lardona schifosa». Sono rimasta muta e mi sono chiesta: «Sogno o son desta?»
Mi aveva insultato davvero, senza motivo, toccando il mio peso che purtroppo pesa, e io, stupidamente annichilita, non ero stata in grado di proferire risposta?
Ma era capitato realmente oppure avevo sognato tutto, poco prima che il tump quotidiano mi svegliasse anche quel giorno?
Il colpo continua a battere con una frequenza maggiore, diversa e in orari desueti.
Mi sveglio anche prima che risuoni e, nell’attesa, guardo il muro divisorio. E lui, il muro divisorio, dalla mia parte di parete, guarda me: da dietro le cornici dei miei quadri sbucano occhi, incorniciati da occhiaie livide, pesti come fossero stati colpiti da tutti i tump fino ad allora picchiati sul muro; mi guardano fissi, l’espressione di rimprovero esplicita che sparisce solo se mi giro dall’altra parte e provo a riaddormentarmi. Ho quell’età, cosiddetta d’argento, grazie alla quale la sera fatico a prender sonno e al mattino vorrei dormire un po’ di più, ma non si può. È una certezza: lo farà anche oggi e tutta la casa risuonerà. Ahu, ahu!
Non si può, non si riesce: a dormire e neppure a riposare, a leggere, a far colazione in pace, a godersi il dolce far niente; non si riesce neppure a iniziare qualsiasi attività perché, dopo il tump e lo zbam, parte l’ahu ahu. Ululati, latrati, pigolii, lamenti, abbai: quel poveretto del loro cane dà voce a tutta la gamma espressiva dello strazio di rimanere solo, di sentirsi ogni giorno abbandonato per ore ininterrotte, fino a quando lei, la sua padrona, non torna, a orari ogni giorno diversi. Ho provato a parlare a quella povera bestiola, per provare a tranquillizzarla, ma senza risultato, anzi: una voce estranea rinfocola lo strazio, aumenta il timore, alimenta il latrato.
Mi costringo a uscire di casa per non sentire.
Tump! Zbam! Ahu! Pepee! È una certezza: lo farà anche oggi. Pepee!
È ormai primavera, se non minaccia pioggia usa la moto e suona il clacson a suo gusto, all’interno di un’ampia zona comune recintata, priva di pericoli. Strombazza la mattina quando esce, strombazza quando rientra mentre io, dopo pranzo, sto bevendo il caffè strombazza in ogni momento della giornata, strombazza e gioca: gira su una pista immaginaria, simile all’otto delle piste di macchinine telecomandate, compone forme a caso, rotea attorno alle piante della grande aiuola comune, lascia impronte di ruote sull’erba e ammazza tutte le margherite, le impronte diventano solchi e poi piste. L’ho vista passare anche sulla bocchetta dell’irrigazione. Ieri ho notato che non innaffia più.
È una certezza: lo farà anche oggi. Fiuu fiuu!
Cuor contento, il ciel l’aiuta recita un vecchio adagio. Si vede che è sempre contenta perché, quando mette piede fuori dalla soglia di casa, fischietta sempre: e sempre lo stesso ritornello della stessa canzone, che mi par di conoscere, una vecchia canzone sanremese, c’era una mano di mezzo… mah, non mi ricordo il titolo. Conoscerà solo quella? Oppure, forse, dice a me, perché l’altro giorno mi guardava mentre fischiava, e fischiava, e fischiava girando senza meta sull’erba del suo giardinetto, intanto che stendevo il bucato nel mio. Poi, all’improvviso, sono apparsi sulle lenzuola stese gli stessi occhi del muro: le occhiaie livide, le espressioni di rimprovero nell’attesa di un gesto, falla smettere – parevano dirmi. Non so se fosse realtà o immaginazione perché nella luce sbieca del pomeriggio vedo poco e male. È una certezza invece il traka traka: lo farà anche oggi.
Sento avviare il motore del decespugliatore. Ma quanto cresce quell’erba? No, non è sempre più verde l’erba del vicino, anzi, e – poveretta – subisce tagli anche quando non c’è, neanche il tempo di ricrescere. In compenso partono a raggiera tutti i sassi della ghiaia che il filo incontra sul suo roteante passaggio e li scaglia tutto intorno, sul mio bucato appena steso, sui vetri delle mie prospicienti finestre. Abbandono il bucato, mentre gli occhi pesti e lividi mi osservano delusi e contano le macchie intorno, corro a chiudere le persiane per evitare danni e grido qualcosa come «Faccia attenzione, per favore» ma il rumore dell’attrezzo mi sovrasta, rinforzato da quello dei sassi sulle persiane: traka traka, thik thok thak! Finirà l’erba, non rimbalzeranno più i sassi ma, è una certezza, griderà anche oggi: Alexaaaa, metti la techno!
Dump dump dump, stump stump stump: rimbomba il rumore per tutta la casa e non si può protestare per il disturbo della quiete, perché prima di cena nessuno dorme e neppure lavora. E poi, protestare con chi? Non mi resta che sovrastare questo fastidio con la musica. Chi se non Bach: che siano i Concerti Brandeburghesi o le Variazioni Goldberg o la Passione secondo Matteo, almeno queste note iniettate nelle orecchie con gli auricolari allevieranno la sofferenza dei miei timpani e del mio cervello. Su quest’onda la mia mente si tranquillizza, riesce a isolarsi dal brutto e dal becero. Libera da ogni costrizione, si libra nell’universo immaginifico della fantasia. Riesce a fantasticare, a sognare, forse a dormire.
Torna la notte e io galleggio in una soffice distesa di calma; avverto in lontananza un picchiettare leggero come di pioggia. Mi alzo e guardo fuori: piove.
«Che dice la pioggerellina di marzo, che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto, sui bruscoli secchi dell'orto, sul fico e sul moro ornati di gèmmule d'oro?»
Quale marzo? Siamo in aprile e, come recita il detto, ad aprile ogni giorno un barile. Torno a letto.
Recita l’altro detto: aprile dolce dormire.
Tump!
Zbam!
Ahu!
Fiuu!
Pepee!
Eccole, le certezze quotidiane. In sequenza perfetta. Anche oggi. È inutile pensare di dormire ancora. Sono sveglia, con gli occhi sbarrati guardo il muro e vedo i soliti occhi pesti che mi guardano, poi si guardano tra loro e dalle bocche che appaiono sparse sulla parete bianca esce un’unica frase: «Questa storia deve finire». Mi alzo e mi metto addosso quel che trovo. Prendo le chiavi della mia auto, la raggiungo, avvio il motore. Lei esce dal proprio parcheggio e sviiish! la sua moto slitta sull’infido pavimento stradale bagnato. Sono dietro di lei, la vedo mantenere l’equilibrio dopo un leggero tentennamento. Guarda a sinistra, guarda a destra, quasi mi affianco e guardo anch’io. Non c’è nessuno, via libera. La osservo, seduta spavalda sulla punta della sella, il casco slacciato reclina sulla nuca, la visiera alzata, i capelli si infilano ovunque e il giubbino svolazza. Accelera sul rettilineo prima della curva, accelero anch’io, la tallono, sempre più vicino. Lei accelera ancora, io la tallono. Accelera, accelero. Prima della curva, frena, e sviiish! l’asfalto bagnato la fa ancora traballare. Decido. In una frazione di secondo decido che questa storia deve finire, me lo dicono gli occhi, me lo dicono le bocche. Accelero. CRASH
Che ore sono? Quasi le nove! È incredibile che io sia riuscita a dormire fino a quest’ora. Vedi? È il potere della musica, la magia di Bach, una pace celestiale, ineguagliabile, in grado di cancellare le orrende visioni. Non appaiono più occhi cerchiati di livide occhiaie. La musica copre tutto, anche i rumori molesti. Non ho sentito né tump né zbam; anche l’ahu pare silente; e niente pepee? Ho però la sensazione di averlo sognato il pepee… ho un ricordo vago, di un sogno che finiva in incubo, di un tragitto in auto, o in moto, non ricordo. Però questa mattina mi sento meglio, decisamente meglio: più serena, quasi sollevata. È tutto merito della musica. A proposito, dove saranno finiti gli auricolari? Li cercherò dopo. Ho dormito proprio bene. È più buono anche il caffè, oggi.
Eooh eooh eooh eoooh!
Eooh eooh eooh eoooh!
Eooh eooh eooh eoooh!
E ora questo cos’è? Ci mancava la sirena, figurati se si può stare tranquilli!
Caspita, è insistente, e mi pare siano più di una.
Si avvicinano sempre più. Ora sono ferme; sono qui? Vado a vedere.
Eooh eooh eooh eoooh!
Eooh eooh eooh eoooh!
Arrivo mentre due ambulanze se ne stanno andando e un’auto dei carabinieri è ferma vicino a una moto spiattellata a bordo strada. Uno di loro fotografa la scena, un altro posiziona cartellini numerati sull’asfalto. C’è anche un capannello di gente. Vediamo se riesco a sapere qualcosa.
«Buongiorno – mi rivolgo a una signora che conosco di vista – Si è fatto male qualcuno?»
«Eh, sì. Buongiorno. La signora che abita là – e indica il nostro palazzo – è uscita con la moto e sviiish! La moto è slittata sulla strada bagnata, ma la signora ha poggiato a terra i piedi, come i bambini quando imparano a usare la bicicletta. Andava, eh, veloce e spavalda: il casco slacciato, la visiera alzata, i capelli si infilavano ovunque e il giubbino svolazzava. Ha accelerato, bella decisa, e poi ha scodato, sa come fanno quei bolidi sui circuiti delle gare di moto GP?»
Annuisco. Il racconto prosegue:
«Aveva dietro un’auto che sembrava volesse superarla: la moto correva, l’auto la raggiungeva ma non riusciva mai a passare finché a un certo punto la moto ha scodato di nuovo sull’asfalto bagnato, l’auto non ha frenato e si sono scontrate. Ma si sente bene, signora?»
«Come dice? Sì, sto bene; ho anche dormito più del solito. Ma ci sono vittime?»
«Quella che guidava la moto».
«E come sta?»
«Ho sentito dire che non c’era più niente da fare».
Per una frazione di secondo ricordo cosa ho sognato di prima mattina. Lo stesso incidente. La stessa dinamica. Sogno premonitore?
«L’auto che fine ha fatto? Hanno visto chi era alla guida? Hanno preso il numero di targa?»
«Io non ho visto chi guidava che se ne sarà andato, sarà scappato, ma quel signore là che sta parlando con i carabinieri dice che gli sembra di aver visto una donna».
Barcollo. Un dubbio atroce mi scuote, ma ho una certezza assoluta: mi sono svegliata nel mio letto alle nove e trenta; ho sentito le sirene dopo, l’incidente era già accaduto.
Barcollo e la signora insiste per accompagnarmi a casa. La sento che parla, che chiede, se ho bisogno si offre di fermarsi con me, di chiamare qualcuno, un’ambulanza…
«La ringrazio, ma non ho bisogno di nulla, men che meno di un’ambulanza, le assicuro. Grazie per il suo aiuto, posso fare da sola. Anzi, guardi, mi fermo qui alla mia auto e ne approfitto per andare a fare un poco di spesa. Arrivederci, grazie ancora».
Non devo acquistare niente in realtà, ma ho visto sul cruscotto gli auricolari che non trovavo più. O forse sono quelli che uso mentre guido per parlare al telefono?
Barcollo ancora, ma che succede? Mi gira la testa. Mi appoggio al cofano. È tiepido.
[in Generazione Over60, aprile-maggio 2024]
©Amelia Belloni Sonzogni