©Amelia Belloni Sonzogni
… cantava il nonno.
Si vedeva da lontano, oltre la ringhiera in ferro battuto del balconcino al primo piano, la poltroncina di vimini che il nonno spostava per guardare da una parte o dall’altra di via Callisto Piazza, a Lodi.
Se aspettava figlia e nipotina, la girava verso via Solferino perché da quell’angolo sarebbero arrivate, lui si sarebbe alzato, appoggiato alla ringhiera con una mano, salutato con l’altra, felice del loro arrivo. Dopo pranzo, invece, mentre moglie e figlia chiacchieravano in cucina, la girava verso via Tito Fanfulla per guardare la facciata della chiesa di San Cristoforo: stretta fra le case, lineare, pulita, cinquecentesca; in apparenza povera, dentro quasi esplodeva nello spazio, illuminato dall’alto della cupola e da una grande vetrata sopra il portone, altissimo. Era stata chiesa, scuderia e poi un magazzino e di nuovo luogo di culto.
Dopo pranzo, la nipotina avrebbe dovuto dormire. La adagiavano sempre sul divano letto della sala con la consueta raccomandazione: «Dormi!» ma lei non aveva mai sonno, specie quando andava dai nonni. Così, chiudeva gli occhi, lasciava passare un po’ di tempo e poi si alzava; si avvicinava alla porta semiaperta della cucina a guardare la mamma che lavava i piatti del pranzo; girata di spalle, chiacchierava con la nonna, seduta tra la finestra aperta sul cortile e il tavolo, gli occhiali sulla punta del naso, il ditale sul medio della mano destra, piegato a spingere l’ago nella stoffa che la mamma aveva portato da casa, perché la nonna aggiustava tutto. Erano talmente prese dai loro discorsi («Sai chi è morto?» con relativi commenti) e convinte che lei dormisse, da non vederla.
Le lasciava parlare e andava dal nonno.
Il nonno pisolava, lo faceva sempre dopo pranzo; con la bella stagione e il clima più mite, pisolava sul balconcino, seduto sulla poltroncina di vimini, addosso una copertina con le frange per non prendere freddo, addosso fin sopra la testa. E la nipotina si divertiva tantissimo a sbirciare lì sotto, per vedere il nonno mentre dormiva e ascoltare il suo respiro. Si avvicinava piano, si piegava sotto il lembo della copertina e lo sollevava quel poco che le serviva per infilarcisi sotto anche lei. Stava accovacciata lì, di fianco al bracciolo. Il respiro era regolare, forse un po’ pesante ma non rumoroso, interrotto talvolta da qualche strano mormorio, parole incomprensibili e gesti lievi delle mani, appena sollevate dai braccioli nell’atto di dirigere un’orchestra.
La nipotina sapeva che il nonno suonava il pianoforte perché ne aveva uno nello studio; una volta le aveva anche detto che le avrebbe insegnato a suonarlo:
– Quando, nonno?
– Quando queste mani piccole cresceranno un po’.
– E questa, nonno, cos’è?
– Una fisarmonica.
Era pesantissima, le faceva anche un po’ impressione con tutta quell’aria dentro.
– Mi insegni anche questa?
– Questa, vedremo.
La nipotina sapeva che il nonno era un musicista: sapeva suonare tutti gli strumenti radunati nello studio, anche il corno e il triangolo, e aveva avuto anche una tromba ma quella non c’era più. Sapeva che aveva insegnato a ragazzi e ragazze che ogni tanto lo venivano a trovare perché lo chiamavano Maestro. Aveva anche sentito parlare di bande, ma non aveva capito cosa fossero.
Il nonno si svegliò. Guardò le proprie mani ancora levate a dirigere l’aria. Le lasciò lì e si accorse della nipotina, accovacciata, che lo guardava zitta e stupita. Le sorrise:
– La mamma aveva detto dormi…
– Cosa fai con le mani per aria?
– Sognavo di dirigere una banda delle mie.
– Cos’è una banda? E quante ne avevi?
Il nonno si tolse la coperta dalla testa:
– Vieni qui, ti racconto.
Allungò le braccia verso la nipotina che gli salì a cavalcioni sulle ginocchia, curiosa di ascoltare il racconto del nonno e scoprire finalmente cosa fosse una banda, felice perché, quando il nonno la prendeva in braccio così, finiva sempre per cantarle una filastrocca («Ucci ucci cavallucci, sento odor di cristianucci») mentre la faceva sobbalzare come fosse a cavallo e le diceva:
– Salta, salta! Saltavo anch’io con il mio Lustro.
Avrebbe voluto conoscere anche la storia di Lustro che era stato il cavallo bianco del nonno per tutto il tempo che aveva servito nell’esercito, quasi fino alla pensione; rimandava sempre, il nonno, non era mai il momento giusto per raccontargliela.
La nipotina rise felice ad ogni sobbalzo, rise anche il nonno.
La mamma li trovò così:
– Hai dormito? – le chiese.
– Sì, sì – rispose il nonno – abbiamo dormito insieme.
– Va bene papà, ho capito… la mamma e io andiamo in solaio.
Solaio? La parola agì sulla piccola come lo scatto di una molla. Balzò dalle ginocchia del nonno e iniziò a implorare:
– Vengo anch’io in solaio!
– Prometti di non toccare niente, di non mettere in disordine?
– Prometto, prometto.
Uscirono le tre generazioni. Salirono la tenebrosa rampa di scale che conduceva al solaio, il misterioso luogo delle meraviglie della nipotina, il rifugio per una famiglia poverissima che i nonni avevano ospitato durante la guerra in cambio di qualche servizio, il ricovero di un paio di galline che depositavano uova per tutti e che la mamma, ragazzina, era incaricata di recuperare.
Nel buio polveroso filtrava la luce delle finestrelle a pavimento: era bassissimo il soffitto in quel punto, solo la nipotina ci stava in piedi senza piegare il capo, ma i vetri pericolanti e l’assenza di imposte le impedirono di avvicinarsi a guardare la via di sotto e salutare il nonno ancora sul balconcino.
– Vieni via di lì! – tuonò la mamma – Altrimenti ti riporto a casa.
– Stai qui con me – disse la nonna – e guarda!
La nipotina si avvicinò alla nonna che, seduta su una minuscola seggiola impagliata, armeggiò con la serratura di ferro di un baule polveroso. Lo aprì, spostando con una mano la nipotina per ripararla dalla nuvola di polvere che si formò e dal forte odore di canfora che ne uscì.
– Vedi un po’ cosa può servirti – disse la nonna alla propria figlia mentre spostava tovaglie bianche e freschi asciugamani di lino.
– Cosa sono, nonna?
– Vecchie cose di un corredo.
– Cos’è un corredo?
– Quando ti sposerai, lo avrai anche tu: lenzuola, tovaglie, asciugamani, camicie da notte, tutto quello che serve a una donna in una casa.
– E questo era il tuo, nonna?
– No, questo era di una signora che si chiamava Zandoni Maria: vedi qui, le iniziali ricamate a punto croce, Z.M.
– Chi era?
– Una mia zia che non c’è più. Guarda che bella questa camicia da notte.
Dispiegò una stoffa bianca di un certo peso e al contempo leggera e fresca, un lino robusto; lo stese in lunghezza e apparve un ampio camicione bianco, lungo fino alle caviglie di una donna di media statura. Le maniche merlate arrivavano al gomito, lo stesso ricamo era ripreso sulla scollatura abbottonata; ai lati di asole e bottoncini erano ricamati bianco su bianco fiori ancora attaccati ai loro steli, piccoli trafori per una pudicissima trasparenza.
La nipotina rimase incantata da questo indumento semplice, essenziale, elegante:
– Posso mettermelo?
Risero la nonna e la mamma, con una sottile vena di amabile scherno che individuò senza comprendere:
– Sei troppo piccola!
– Ci stai dentro quattro volte come minimo!
– Allora, me lo conservi per quando sarò grande abbastanza?
Nel pacco di stoffe che la mamma portò a casa c’era anche la vecchia camicia di Z.M. che la nipotina aveva mostrato vanitosa al nonno. «Ti starà benissimo!» le aveva detto lui e lei felice gli aveva buttato le braccia al collo e schioccato un bacio sulla guancia grinzosa, con la barba un po’ lunga.
– Nonno, ma tu, quanti anni hai?
– Non sei capace di contare fino a lì…
«Non è ancora il momento di buttarla?» disse sorridendo il marito alla moglie.
«No, perché?»
«Qui dietro, in basso, c’è un buchino…» e glielo indicò. Lei valutò la possibilità di un rammendo. Certo, sua nonna lo avrebbe reso invisibile.
«Sai quanti anni ha questa camicia?» domandò mentre la infilava sopra il costume da bagno.
«Troppi, secondo me».
«Secondo me, no».
Uscirono, lei salì sullo scooter facendo attenzione al buchino che doveva restare tale ancora per molto. Lui sorrise, mise in moto e il vento gonfiò la camicia di Z.M. in uno svolazzo felice fino al mare.
[in Generazione Over60, luglio-agosto 2024].
©Amelia Belloni Sonzogni