Giravamo per cale, con il gozzo di uno, il gommone dell’altro al quale io, maldestra, ruppi un giorno la bandierina di prua. Ogni istante era un momento divertente: per l’onda presa di traverso, per gli schizzi che mi arrivavano quando conquistavo la postazione a cavallo della pernaccia, per gli scherzi e i giochi nell’acqua da inventare e ripetere, per i tuffi da ogni scoglio possibile. Tra noi, foresti cioè villeggianti originari di altre regioni, ogni cala aveva un nome diverso da quello che i levantesi utilizzavano per distinguerle: il Cavetto era Japao, a böa da Madonna erano le acque verdi, u lagu era diventato il laghetto delle vergini, Purtiggiùn invece era tradotto fedelmente, Portiglione. immagine tratta dall'archivio fotografico dei "Braviragazzi Levanto Amarcord"
Quando ho portato il mio barchino a scoprire queste cale zeppe di memoria, estati gioiose e spensierate, eppure colme di problemi da adolescente, un nodo alla gola per poco non mi ha soffocato: stentavo a individuarle. Non solcavo il mare lungo quel tratto di costa da parecchi anni e la realtà rimpiccioliva ciò che nel ricordo aveva dimensioni maggiori, ma non era questo il punto. Tranne in pochi casi, le rocce – sinonimo di fissità inamovibile, nel mio immaginario – avevano cambiato posizione, le cale non erano più le stesse, le spiagge erano più che dimezzate, e Canuei alias le bianche, la lunga lingua di sassi bianchi a forma di uova di ogni misura si era ridotta a un triangolino, sommersa com’era dalla frana di massi giganteschi. Un dolore acuto mi ha trapassato, ma ho sorriso perché nel ricordo ho rivisto come in un film la prima e unica gita in barca con mamma e papà.
Pierone detto Peo, grande, abbronzatissimo, calvo, una voce cupa, una cadenza strascicata come le sue ciabatte consunte sul lungomare assolato, avanti e indietro con sosta di una sigaretta sull’ultima panchina sotto villa Agnelli, appariva scorbutico, indolente e trasandato; portava i turisti agli scogli con un gozzo che aveva sopportato i pesi dei blocchi di arenaria staccati dagli scalpellini alla Gatta, poco prima di punta Mesco. Papà aveva prenotato con lui una gita alle bianche (cioè Canuei) per un giorno di bonaccia, e così fu all’andata: sbarcammo comodi, seppure un poco incerti e traballanti su quelle superfici lisce, con lo stretto indispensabile e un pranzo al sacco preparato dalla cucina del nostro albergo. Non così al ritorno, quando fu un’impresa reggersi su quei sassi scivolosi per issarsi sul Sabi di Peo che era arrivato a recuperarci, prima dell’ora stabilita perché il mare si stava alzando. Lessi sul volto di papà un chiarissimo «mai più». Però Peo divenne uno dei suoi amici più assidui nelle mattine passate a chiacchierare al fresco sull’ultima panchina, sotto villa Agnelli.