©Amelia Belloni Sonzogni

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con la stilo nel pc

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Rosbò, gattafin... che facciamo stasera? [anteprima 5]

2025-02-20 07:16

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romanzo, anteprima,

Rosbò, gattafin... che facciamo stasera? [anteprima 5]

Non ci sono più tutti gli amici di papà, quelli che gli hanno fatto compagnia, che mi hanno consolato quando ne avevo bisogno. E cominciano a sparire anche i miei. È difficile adeguarsi. Perciò tutti gli angoli di questo mio luogo mi sono cari, anche se sono tanto mutati.
Un posto pubblico per telefonare: c’era! Si faceva la fila, si entrava in una cabina dietro una porta che risucchiava dentro con la gomma dello stipite. Una gastronomia appena fuori dallo stabilimento per un pasto svelto se all’ultimo minuto decidevi di fermarti al mare a pranzo: c’era! Che pizze deliziose sfornava l’Arcobaleno… Un negozio di abbigliamento sportivo ma elegante, la mia cifra: c’era! Da Saudino ho trovato capi eterni, di una classe senza tempo. E la Thea? Schiere di bambine si sono vestite da lei, kilt e maglioncino blu alla marinara che pizzicava sul collo.
E c’erano tutti i negozi necessari, gli artigiani richiestissimi, preziosissimi, introvabili ma c’erano, era solo questione di tempo, il tempo lento ma sempre laborioso di un paese che aveva un piccolo ospedale funzionante, medici rinomati, pediatri dai medicamenti infallibili adatti a curare ogni generazione. Tutti, di nascita o adozione o foresti, siamo stati visitati da sciu megu, passati al vaglio di quell’occhio clinico capace di riconoscere il tetano e salvare la vita. Un posto fresco, immerso nel verde ma a picco sul mare, senza fronzoli, alla buona ma zeppo di cose buone: c’era! Rosbò era un posto incantevole che si è ribellato ai registratori di cassa e ha deciso di chiudere perché non era un’attività commerciale, era un modo di essere.

Si doveva arrivare al termine della strada che porta in cima al Mesco, salire per una breve ma ripida scala che sbarcava su un grande terrazzo coperto da un pergolato di vite con il mare davanti. Proprio lì sotto c’era Canuei, e lo scoprii quando pranzai con papà e mamma dalla proprietaria della villa padronale. La signora, una collega di papà che abitava a Milano e passava lì le vacanze, ci portò con la propria jeep a visitare la spiaggia, parte della sua proprietà. Era Canuei, alias le bianche. Mi ero chiesta, fino a quel momento, dove portasse quella strada sterrata che risaliva a zig-zag la parete scoscesa e si notava nettissima dal mare. Ora la strada è franata, la casa è diventata un’altra.
Al piano terra della villa, i mezzadri allestivano merende e cene con i prodotti dell’orto, della vigna e di una stalla. Attorno a un tavolo sghembo, su sedie scalcagnate, ho trascorso indimenticabili pomeriggi a far merenda con focaccia e formaggetta, olive, vino aspro di terrazza e gattafin.
Cosa sono i gattafin? Eh, per capirlo bene bisogna assaggiarli. Allora si sente il gusto della terra sul mare, arriva in bocca lo spruzzo bianco dell’onda che frange, si assorbe la fatica di chi a fine giornata raccoglieva alla Gatta erbe fini da portare a casa a una donna capace di ogni fatica e di ogni sfoglia. Impasti semplici e saporiti finivano nell’olio bollente avvolti in veli impalpabili e al tempo stesso croccanti. Sul vassoio di queste delizie ci buttavamo come se non avessimo mai mangiato in vita nostra; restava vuoto in pochi minuti.
Si guardava il sole calare. Si chiacchierava, si pensava, si stava lì ad assorbire il bello celeste di un mare infinito, profumo di sale ed erbe di macchia; si sbocconcellava, in certi periodi di fine stagione, la focaccia alle olive. Le reti ancora tese tra gli alberi, la strada che portava al frantoio intasata da un via vai di Ape Piaggio, colme di cassette ricolme che tornavano vuote, bidoni di oro giallo per tutto l’inverno, e anche di più, si infilavano al riparo di vecchie cantine.
Poco prima dell’imbrunire, i pochi tra noi già patentati accendevano i motori e scendevamo con il mare a sinistra, il sole sempre più basso, i profumi, gli sguardi, le canzoni intonate dalle voci un po’ brille. Tornavamo tutti in paese, a casa per cena, per poi ritrovarci alle nove o poco più.
Che facciamo stasera?
Il cinema all’aperto dopo Ferragosto richiedeva maglione e copertina, l'occasione per nascondere l’intreccio delle mani, rivelatore di un flirt da celare per evitare che gli amici in compagnia spettegolassero o, peggio, deridessero. A chi nulla importava delle voci di paese, restava tutta la notte da passare avvolto, abbracciato, compenetrato su una sdraio, fino all’alba, fino a quando il profumo della focaccia appena sfornata – con un asprino di cipolla appena appena – usciva dalle botteghe dei fornai, camminava per vie e carruggi, si spingeva fino al mare. Sembrava fosse lì, su un vassoio, pronta per essere addentata; aprivi gli occhi cisposi su una sagoma confusa… era la colazione del bagnino che, tra un boccone e l’altro, passava a sistemare sdraio e ombrelloni prima dell’apertura dei bagni e ti faceva ruzzolare sulla sabbia umida: «Sveglia, belinun
Non potrei più, oggi. Ma in compenso posso stare qui sempre.
[foto archivio Braviragazzi Levanto Amarcord]


©Amelia Belloni Sonzogni