©Amelia Belloni Sonzogni

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giorno orribile

2025-04-18 08:25

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giorno orribile

Tre mesi dopo che te ne sei andato, è nato Giatt, che ora dorme vicino a me nella tua cuccia, quella degli ultimi tempi, quella che mi lacera ogni volta che lo sento grattare la sponda; lui prende anche le tue carezze tutte le sere prima di dormire, al mattino mi sveglia con il rumore delle unghie sul pavimento, impaziente di svuotare la ciotola e uscire. Prima di mangiare, però, aspetta che gli si dia una carezza sul petto. E, al contrario che a te, a lui la pappa interessa moltissimo.
Non ci sei più tu, poggiato sul bordo del letto, con il tartufo umido e freddo che controlla il mio respiro, ma vedo una faccia buffa, che sorride con le orecchie indietro, tende le zampe verso l'alto in attesa di battere un cinque + cinque. Un buongiorno diverso dal tuo: tanto invadente esuberante agitato quanto il tuo era discreto.
Ti ricordi Pancho, il gatto che ti è toccato in sorte? Si stiracchiava tutto felice, si guardava intorno e diceva: «Bene alzati! Anche oggi è una bella giornata». In questo Giatt somiglia più a lui che a te, tutto preso dal tuo desiderio di scoprire e sapere e memorizzare per ricordare anche a me in caso di sbadataggini mie varie. Mi sono affidata a te così tante volte e questo di te mi manca tantissimo. Ti sei fatto carico di così tanto: ansie, preoccupazioni, tristezze, discussioni e soluzioni, malattie. La tua, soprattutto la tua: degenerativa, incurabile, devastante.
Ma sì, penso al bello; alla tua e nostra vita felice, ai tanti luoghi che hai visitato viaggiando sul camper con noi. E ti si poteva portare ovunque: eri sempre perfetto, educato, posato, mai uno strappo al guinzaglio, una reazione imprevista e ostile verso un umano, adoravi i gatti e facevi amicizia con ogni altro animale, cani maschi a parte. È vero, è capitato che non rispondessi al richiamo e in due casi hai rischiato proprio grosso; però mi seguivi ovunque: camminavamo insieme per ore. E questo mi manca moltissimo perché – come sai – Giatt non ama stare in mezzo alla gente. Si spaventa, scappa, scarta in ogni imprevedibile direzione, rifugge qualsiasi tentativo di umano approccio.
Solo nell'orto fa pace con il mondo circostante, a parte la raffica di abbaiate ai ciclisti di passaggio o ai ragazzi vocianti.
Si arrampica su pendenze a perpendicolo, si precipita per discese a scapicollo, controlla ovunque, caccia lucertole, ruba legnetti dalle cataste e li deposita dove solo lui sa, tiene d'occhio noi che teniamo d'occhio lui e spesso – sempre – pensiamo a te che non avevi un orto tutto tuo, ma non avevi bisogno di recinzioni: lo spazio ti incuriosiva e non conoscevi limiti.
In questo periodo gli erbi non son più da raccogliere, sono in asta e fioriscono in distese di colori che paiono quadri di macchiaioli o puntinisti; suggeriscono meditazione, o almeno una pausa. Perciò, l'altro giorno ho posato gli attrezzi (una zappetta e un barattolo di stucco per piante) ho tolto i guanti da lavoro e mi sono seduta sotto il ciliegio fiorito a guardarmi intorno. Giatt era più giù di qualche balza e non mi ha visto, non mi ha sentito.
Ho pensato a te, a quanto ti saresti divertito qui e a dove avrei potuto seppellirti.
Che bei pensieri, eh?
Così, di associazione in associazione, mi è tornato in mente il momento in cui, mentre stavo avvolgendo nella sua copertina Dog ormai cadavere, mentre non riuscivo a smettere di baciarlo tra gli occhi, il veterinario mi ha chiesto se volevo le sue ceneri.
Pochi istanti per decidere, nello strazio di quello che avevo appena vissuto, con me solo Caterina: ho pensato a papà, al suo dolore, che uno scatolino da cui non si sarebbe separato avrebbe potuto rendere ancora più acuto, forse; o forse no, forse lo avrebbe voluto, forse ho sbagliato. Lui non ha chiesto, non ha voluto sapere, non mi ha giudicato. Forse ho sbagliato; forse si sarebbe sentito meno solo, forse lo avrebbe consolato?
Ma come ci si consola da questi dolori? Non si può, non si riesce. Nel tempo, si sentono meno spesso. Diminuisce la frequenza, non l'intensità, identica. Nessuno dei ragionamenti e dei ricordi belli può lenire, consolare, far sbiadire. E lo scatolino che ti contiene, non mi consola. Sta lì, sul ripiano della libreria a portata di tocco quando mi siedo a scrivere, ma saperti cenere mi addolora come il giorno in cui ti ho riavuto con me in questa forma.Così, nel pensiero mi fingo che salti come saltavi tu: alti balzi da gazzella, con le zampe posteriori, proprio quelle che si sono ammalate, tutte di lato, di sbieco... eri buffo e ti lanciavamo qualcosa per farteli ripetere e osservarti e sorridere. Così, nel pensiero mi fingo che papà prenda il fresco sotto i kiwi con Dog, arrotolato sulle sue ginocchia o in giro a recuperare palline da tennis o a sbrindellare una pigna.Guardo Giatt: quindici chili di robusta tenerezza, che non si lascia prendere in braccio, che sente ogni mio dolore e, come te, non mi molla mai, che si rotola dove non dovrebbe, si impuzzolentisce tutto e arriva, prima ancora che lo chiami, con il muso nella pettorina, girato nella direzione a me più comoda per legarlo. In questo è molto più bravo di te che smaniavi insofferente perché sbagliavo sempre a infilartela.
Insomma, non ci sei più ma ci sei sempre. Sei anche nelle pagine di un libro e qualcuno mi ha detto che non l'ho scritto io, ma tu attraverso me. Credo uno dei complimenti più belli, Pedro, amore mio, amore nostro.E nel pensiero mi fingo che tu sia qui, con noi, sotto il ciliegio e che, tutti insieme, ruzzoliamo per le rive.

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©Amelia Belloni Sonzogni