[Io sono in scaramantico "silenzio stampa", ma Pedro no]
Nell'anno del *** [seguiamo le ultime direttive morattiane], avevo otto anni, da compiere il famoso 28 ottobre [famoso per chi ha letto il libro che racconta la mia storia. E se non lo ha letto, beh, è qui...].
Ero nel mio pieno vigore fisico e avevo accumulato un bel bagaglio di conoscenze. Odori, umori, luoghi: riconoscevo tutto se ci ero già stato; memorizzavo tutto se era la prima volta che mi ci portavano. Andare in esplorazione mi è sempre piaciuto un sacco. Non avevo paura di niente.
Eravamo arrivati da pochissimo a Vignola, in campeggio in Sardegna, sulle Bocche di Bonifacio. Un posto bellissimo, in una pineta che in quei giorni era tutta mia perché c'erano pochissimi campeggiatori e potevo gironzolare anche da solo.
Sistemare il camper nella piazzola con tutto l'armamentario utile a rimanerci fino ad ottobre, non era una cosa semplice né rapida. Di sicuro non si sarebbe riusciti a installare per tempo un'antenna in grado di captare il segnale per vedere Barcellona – Inter; i miei bipedi tutti e due nerazzurri, non se la potevano di sicuro perdere, perciò avevano scovato ad Aglientu, paese poco sopra il campeggio, un bar dove si poteva andare a guardarla.
Ovvio che non mi avrebbero lasciato da solo sul camper per tutta la sera; d'altronde ero abituato a stare con loro, sempre, ovunque. E poi se c'ero anch'io, l'Inter... non si doveva dire per scaramanzia.
Era una partita storica: ritorno di semifinale coppa dei campioni. Avevamo seguito quella di andata da casa, nella consueta postazione: lei sul divano [il nostro – mi suggerisce di dire a PeppinInter – portava bene] e lui, invece, sulla sedia, gomito sul tavolo, qualcosa da bere, niente sigarette, aveva già smesso. Schermo di sbieco per vedere bene tutti. Io ero l'unico libero di muoversi dalla postazione. Me ne stavo rannicchiato su di lei che sussultava e mi tormentava ogni momento. Al primo gol degli avversari... va beh, ho tappato le orecchie. Poi ci sono stati tre momenti da urlo, nel senso che urlavano tutti e due come matti e lei mi ha preso in braccio e fatto girare come in un valzer. Salti quasi acrobatici a fine partita, anche durante il giro per l'ultima pipì, sotto casa.
Ad Aglientu, al bar, tutto lasciava pensare che sarebbe stato diverso.
Lui aveva passato la giornata a catechizzarla, lei a inalberarsi ad ogni suggerimento:
«Mi raccomando, evita esclamazioni forti...».
«In che senso?»
«Non ti scalmanare. Saremo in un bar, di un paese dell'interno dell'isola».
«Neanche dieci chilometri dalla costa...».
«Sei una donna, turista, che va al bar per una partita di calcio...».
«E allora? Stai a vedere che non posso dire quello che voglio in un posto pubblico mentre assisto a un evento pubblico trasmesso in televisione, pubblica!»
«Non ci saranno molte altre donne...».
«E con questo?»
«Saremo gli unici interisti. Qui sono juventini».
«Meglio!»
C'erano tutti gli ingredienti per caricarla a manetta: donna, in mezzo a maschi di presunte non ampie vedute, gobbi per giunta, che la volevano zittire? E quando mai si era visto!
Per fortuna c'ero anch'io: con la scusa di tenermi d'occhio perché niente di male mi capitasse, pronta a scattare in mia difesa sarebbe stata meno all'erta nello scattare contro il sopruso o qualsiasi atto ritenesse tale nei confronti del suo diritto al tifo libero. Certo, se poi l'Inter avesse segnato al Camp Nou... manco io l'avrei tenuta e al diavolo i maschi gobbi. Muti, dovevano stare!
Scese a più miti consigli quando ci sedemmo al tavolino del bar. Forse annusò come me un'aria poco amicale. Di certo io mi accorsi dello stupore. La squadrarono insistenti, con espressioni di marmo, mentre si tolse la giacca, si sedettero e ordinarono un caffè d'orzo in tazza grande lei (meglio evitare la caffeina), una birra lui.
Mi infilai sotto il tavolo, tra le loro gambe; mi appoggiai a lei.
Quando iniziò la partita, per maggiore sicurezza mi prese in braccio e, sottovoce, mi disse: «Ma questi non lo sanno che, nei luoghi chiusi, gli uomini si devono togliere il cappello?»
Intorno a me, coppole calate sulla fronte ovunque, occhi torvi, sorrisetti da presa in giro appena accennati, una specie di «vediamo quanti ne prendete». E sciarpe bianconere, a tifare Barcellona.
Sentii spesso pronunciare il mio nome. Un giocatore avversario si chiamava Pedro come me; mi giravo e cercavo con il tartufo la voce che mi aveva chiamato. Servì a distrarla; impegnata a tranquillizzarmi e rassicurarmi, si perdeva qualche sguardo di traverso da sopra le sciarpe zebrate.
Rischiai lo stritolamento ad ogni attacco alla porta dell'Inter, ad ogni volo spettacolare di Julio Cesar, ad ogni azione pericolosa che poteva significare la vittoria; la sentivo scaricare la tensione su di me che tenevo d'occhio i maschi gobbi intorno e stavo all'erta per anticipare le sue mosse, ma fu bravissima a contenersi: tanto c'ero io da strapazzare.
Il gol del Barça la gelò e la tensione crebbe, come i sorrisetti di compatimento fino al sospiro di sollievo dei fischi finali liberatori. Allora si infilò lentamente la giacca e, mentre lui pagava con calma le consumazioni offrendo anche qualcosa al gobbo che aveva diviso il tavolo con loro, si divertì un sacco a guardare con un bel sorriso, di quelli più irriverenti che trovò, le visiere delle coppole calate sulle teste per lo più calve, le facce degli juventini che se ne andavano scornati con le loro sciarpe. L'ovattata atmosfera di attesa guardinga si era liquefatta in un dispetto che preferivano non mostrare.
Tornammo al camper con i finestrini dell'auto spalancati, cantando nell'aria profumata, umida di mare e pioggia, una vecchia canzone della squadra: «Inter Inter più forte che mai, persino il cielo è nerazzurro ormai». Per la finale c'era tutto il tempo di predisporre l'antenna... ma non ve lo racconto adesso, per scaramanzia.
Nell'immagine di apertura, il panorama che si apriva da Aglientu, qui sotto invece quello che si vedeva appena svegli.
