Educare? Addestrare?
No, comprendere cos'è e chi è il cane, ed entrare in relazione, come i cani che si aiutano a vicenda, che comprendono chi e cosa è adatto a loro, che ricordano i torti subiti solo per evitarne altri e si fidano di nuovo (dopo scrupolosa valutazione) solo perché ne vale la pena: così, tra le cacche, le buche, le ciotole da lavare, riempire e distribuire, la passeggiata, il bagno, il gioco, le manutenzioni, le cure, lo stare in mezzo ai cani senza niente o con un libro sui cani, il canile diventa «l'unico posto dove vale la pena di stare».
Il 281 di Mondovì è questo per chi ha lasciato lavori in cui il bel vestito, un buon profumo o l'aplomb erano indispensabili e, attratto dalla forza catalizzatrice che il cane possiede, ha deciso di dedicarsi a lui: con il lavoro sul campo e con la costruzione delle proprie nuove indispensabili competenze. Le priorità sono mutate, l'aspetto è diverso, la sensazione prevalente è il benessere.
Il 281 di Mondovì è cambiato grazie all'azione convinta, consapevole e competente di un gruppo di donne unite in Gea, associazione che lo ha rilevato e ha creato una rete di attività eticamente sostenibili a suo supporto.
Il 281 di Mondovì è un canile al contrario: non spiego il senso – lo racconta il documentario – ma si può intuire. Nella prassi comune, chi sceglie chi? E sottolineo chi, non cosa. L'umano sceglie il cane, ma resta l'umano il più difficile da analizzare, capire, comprendere. Ci vuole tempo. Quanto? Quello che serve. Quanto è? Il cane lo sa perché – cito Estelo e la anticipo, ma il concetto è troppo bello per non utilizzarlo come suggerimento prima di vedere il documentario – «il cane ci insegna a perderci nel tempo».
P.S.: anche io, sono randagia!

