«barocco è il G.!» …

… lamenta “l’editore” nell’appendice nella quale chiede venia del recupero di questo testo, incompleto e pubblicato in varie fasi, chiamando in causa l’autore.
E aggiunge: «barocco è il mondo» e grottesco, e la penna spietata di Gadda lo tagliuzza come merita, con una «programmata derisione, che in certe pagine raggiunge tonalità parossistica e aspetto deforme». Il dove del grottesco è il «fegato macchinatore dell’universa realtà».
Inutile girarci intorno: leggere Gadda è complesso ma è bellissimo, è il piacere di leggere per leggere perché ogni parola (specie le sue parole, quelle che necessitano del Gaddabolario che sto spulciando molto lentamente) apre un mondo, evoca situazioni, induce riflessioni, riaccende ricordi e provoca quel gradevolissimo solletico alla mente che subito accelera il ragionamento, collega tutte le nozioni in suo possesso, gliene rivela di nuove, e diverte, a volte in modo sottile, ironico, sarcastico, sul quale serve ragionare, altre con una risata immediata, a crepapelle.
Quando si legge Gadda, basta leggere, sciogliere la complessità non è indispensabile. La trama si perde, ma non importa, si ritrova, si riperde.
Affermo; è così, almeno per me.
Quindi sono d’accordo – tra qualcosa letta in proposito – con Davide Brullo (il Giornale, 2 settembre 2017) quando dice che la generale deferenza verso Gadda lo rende una reliquia venerata nella quale alla fine non si crede. Andrebbe letto, insomma, perché Gadda è «musica, puro bagliore», da percepire prima e stropicciare poi, leggendo e rileggendo.
La trama de  La cognizione del dolore si può sintetizzare in una frase, che mutuo ancora da Brullo: «siamo nel 1934 e don Gonzalo Pirobuttirro, che abita a Lukones, un villaggio del Maradagàl, attende la visita di un dottore; dicono che don Gonzalo, spesso lontano da casa, sia scorbutico e violento, che maltratti la madre, la quale, alla fine del libro, incompiuto, è nella sua camera, moribonda, dopo una aggressione compiuta non si sa da chi».
Questo bizzarro Sudamerica dove si colloca il Maradagàl, dotato di un Serruchòn che ricorda il Resegone, nasconde la Brianza; il Nistitùo richiama le squadracce fasciste; la villa dei Pirobutirro è l’ambiziosa dimora dei Gadda nel lecchese, causa di bancarotta familiare, dove si svolge una vita minuta di occupazioni e gesti quotidiani che sono fonte di logoranti nevrosi per don Gonzalo, «personaggio sulfureo, arroventato, analiticamente irrisolto […] ombra più che autobiografica dello stesso autore» (Filippo Polenchi sull’Indice del 17 gennaio 2018). Proprio quell’autore che «lambiccava rabbioso dalla memoria una qualcheduna di quelle sue parole difficili, che nessuno capisce, di cui gli piace d’ingioiellare una sua prosa dura, incollata, che nessuno legge» (pag. 54 ed. Garzanti 2010 in foto, Testo curato da Emilio Manzotti per il volume delle opere di Gadda diretto da Dante Isella).
Qui si annida la conoscenza consapevole, la cognizione del dolore che Gadda indaga, accanito anche e soprattutto verso se stesso, vittima di un male oscuro che lo divora e si sfoga nell’odio verso la propria gente e nell’ostilità verso la madre cui è morto un altro figlio, in guerra.
Leggerò della guerra, cercando di trovare riscontro per quest’altra interessante affermazione secondo la quale la guerra non è solo un tema, ma «è un modo di scrivere, è una situazione di scrittura, una curvatura del discorso, è un modo di essere-nella-scrittura che non riguarda solo le pagine specificamente dedicate a quell’evento, ma affiora nell’intera distesa testuale» (Manuela Bertone, Gadda: la scrittura come «strazio del passato continuo» https://journals.openedition.org/cei/233?lang=it ).