una giornata ad Arenzano

Non so risolvere l’eterno dilemma tra rimorsi o rimpianti, e neppure prendere una posizione, ma so che il tempo trascorso, in un caso o nell’altro, impone di non sbagliare più.

I colori a Levanto questa mattina sono quasi sgargianti, nitidi e in contrasto, come un quadro di Matisse o Van Gogh, rari per essere il 7 agosto.
Sul verde dei rilievi, dalle gradazioni smeraldine ai riflessi argentati e cangianti degli ulivi, vince il mare: un insolito zaffiro, un blu scuro denso caldo, spicca sotto il cielo celeste del mattino presto. L’aria fresca, pulita, odora di mare mosso appena passato, onda che si calma e si allunga. Qualche increspatura bianca si alza qui e là, come glassa di zucchero.
Superiamo il casello in direzione Genova.
Da qualche tempo, quello per Arenzano è un viaggio breve e gioioso: «Che bello!» è il pensiero di tutti noi che ci ritroveremo là.
Ora lo sento meglio di sempre il bene che c’è nell’abbraccio di mio cugino Carlo, che mi aspetta a casa sua. È lo stesso, immediato e spontaneo, che mi aveva avvolto una domenica di una visita inaspettata. Studiava per un esame all’università, sulle orecchie le cuffiette con la musica classica per indurre maggiore concentrazione, lo zio gli aveva toccato la spalla con la mano: «Guarda chi c’è». Era apparsa la gioia in volto al vedermi, le braccia si erano aperte e richiuse attorno a me tanto strette da lasciarmi quasi senza fiato.
Leggo su un pannello elettronico la segnalazione di un incidente – veicolo in fiamme – per fortuna sulla corsia opposta. Poche centinaia di metri dopo, il fuoco è lì a divampare sotto controllo. Non ci sono ostacoli sulla nostra strada. Corre la costa ligure di levante alla nostra sinistra, i colori sono ancora più intensi, le tonalità leggermente diverse, ancora più piene.
Arriviamo nei tempi previsti, con i nostri cestini, i prodotti dell’orto da assaggiare, i sorrisi e i saluti lanciati dalla tromba delle scale in attesa che l’ascensore ci avvicini.
Si apre la porta, si rinnova l’abbraccio.
Sulla soglia di casa, Amelia; no, non io, lei, la mia omonima cugina, io sono un po’ più piccola (Amelietta), aria di famiglia nei nostri lineamenti, il sorriso ad accogliere e accudire, la riservatezza come habitus, gli stessi modi buoni e ospitali della zia.
E il Giatt – il nostro cane “manigoldo” – manifesta gradimento con generosi e inopportuni battesimi sui muretti del terrazzo. Che imbarazzo…
«Non è casa, senza un cane che gironzola»: lo dice e lo pensa Carlo e, come tutti noi presenti, lo dico e penso anch’io, mentre Giatt esplora ovunque, quasi sulle tracce di Romola e Nerina che in questa casa, su questo terrazzo hanno vissuto insieme e hanno giocato con me; e poi solo Nerina, e poi Baia che ha conosciuto Pedro.
Saluti, chiacchiere, un bagno prima di pranzo…

Ero troppo piccola per averne un ricordo, ma la calligrafia di papà sul retro della fotografia lo documenta: Arenzano – agosto 1959. Passavo quell’anno le vacanze nella stessa pensione in cui papà andava da piccolo, correvo con i cuginetti sulla stessa spiaggia, lì di fronte, e – pare – la prontezza ardimentosa faceva ancora parte del mio carattere: infatti il nonno scriveva, ironico, a mia madre di essere al corrente del fatto che le davo «delle lezioni di certi verbi della lingua italiana». Sorrido e al tempo stesso rabbrividisco al pensiero della reazione materna: ipotizzo irritazione e dispetto, quasi rivedo l’occhiataccia fulminante, risento la reprimenda.
Però, che caratterino Amelietta allora; perso nel tempo, temo.
Incurante dell’abito, le calze arrotolate, un palloncino per giocare e in mano due biscotti, stretti, da non mollare: quante ne avrò combinate, ancora? E quanti giochi e bagni avrò condiviso con Carlo e Amelia?
La giacca di papà è ripiegata sulla sponda della sedia, come faceva lui. Quel giorno dunque era con noi, arrivato da Milano o in partenza per tornarvi, lui che dopo neppure una settimana scriveva: «Mi sembra un secolo che non vedo la trappolina» e ripeteva raccomandazioni sulla necessità di non espormi al sole nelle ore calde, di prevenire possibili danni alle mie sensibili tonsille, di intervenire senza indugi al solo accenno di un malessere («Mio fratello mi ha detto che lì c’è un bravo pediatra, chiamalo subito»); lui al quale mancavo: «Mi sembra che Amelia si sia un po’ dimenticata del suo paparotti»; lui quel giorno della foto era con me, con quasi tutti noi che siamo qui oggi sul terrazzo di fronte al mare di Arenzano.
Lo so, avrebbe voluto ci fossero altre estati come quella, lì, tutti insieme.
Non è capitato.
Diverse determinazioni, scelte, strade; destini? Solo fino a un certo punto.
Rimpiango il tempo perduto nel seguire una rotta che avrei potuto invertire – questo mi rimprovero – invece di lasciarmi trascinare dalla corrente. Però, quando un gorgo pericoloso ha provato a risucchiarmi, ho attinto alle forze giuste, ho cercato l’appiglio e l’ho trovato: loro c’erano e ora, questo conta, ci sono.
«Che bello!»